Come fare della contrattazione una leva per la produttività? I risultati del progetto Bargaining for Productivity.

Complesso e controverso è il significato del concetto di produttività. Tempo fa, avevamo provato a fare chiarezza, prendendo spunto dal prezioso contributo di Luciano Gallino (L. GALLINO, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, 2013), che definiva la produttività come valore aggiunto per ora lavorata.

Alla crescita della produttività, così intesa, concorrono non soltanto i tempi e la qualità del lavoro, quanto piuttosto la complessiva capacità dell’impresa di saper innovare e sviluppare, i mezzi di produzione impiegati e l’organizzazione del lavoro e dei processi produttivi. Si tratterebbe di una produttività intrinsecamente sostenibile nel tempo, perché poggia le sue fondamenta non su una razionalizzazione dei costi e su un mero efficientamento dei tempi di lavoro ma su una progettualità di lungo periodo e su investimenti che spaziano dal campo della ricerca, a quello del capitale umano e organizzativo. Se innestata su queste dinamiche, la contrattazione
collettiva non può dirsi estranea alla produttività e può anzi contribuire ad influenzarne l’andamento. L’entità della sua azione è stata oggetto di uno studio comparato, cofinanziato dalla Commissione europea e intitolato “Bargaining for Productivity”, che dal 2015, sotto la guida di ADAPT, ha studiato le relazioni tra contrattazione e produttività in quattro settori chiave (automotive, distribuzione, turismo e sanità) di sei Paesi europei: Germania, Italia, Olanda, Polonia, Spagna e Regno Unito. Dai risultati di questa ricerca, discussi anche in occasione della Conferenza finale del progetto tenutasi a Roma lo scorso 4 settembre, sono emerse considerazioni interessanti e spunti utili per chi si propone di impiegare la leva della contrattazione collettiva a supporto e sostegno della produttività. Non ci può essere contrattazione collettiva per la produttività senza che Governo e parti sociali credano nel potenziale delle relazioni industriali in questo ambito. In Spagna, ad esempio, il contratto collettivo è ancora in larga parte percepito come uno strumento essenzialmente regolatorio, e nel Regno Unito manca la volontà politica di scommettere sulla
contrattazione collettiva: scommessa che per essere vinta richiederebbe una legislazione di sostegno alle parti sociali, in netta controtendenza rispetto alle ultime scelte governative (si vedano i contenuti del Trades Union Act del 2016). Tali orientamenti non possono che porre un freno al potenziale della contrattazione collettiva in questo campo.

Relazioni industriali cooperative sono la pre-condizione per una contrattazione collettiva a sostegno di una produttività sostenibile. A dimostrarlo, oltre allo studio in esame, sono alcune prospettive teoriche come quella dell’Open Innovation (H. W. CHESBROUGH, Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Press, 2003), che spiega come lo sviluppo e l’innovazione industriale si fondino su un ecosistema territoriale di reti e relazioni, in grado di garantire continui flussi di informazioni, trasparenza delle stesse e il trasferimento di competenze e conoscenze dall’interno all’esterno dell’impresa e viceversa. In quest’ottica, la produttività di un’azienda non potrebbe prescindere da relazioni industriali collaborative, capaci di
valorizzare l’expertise dei lavoratori e quello dei loro rappresentanti, considerando il sindacato stesso un player strategico, insieme alle scuole e alle amministrazioni locali, per lo sviluppo delle imprese e dell’intero territorio. Diversamente, il caso della Polonia è
emblematico di una crescita della produttività perseguita tramite politiche di contenimento salariale e una radicale liberalizzazione dell’economia, che ridimensionando e quasi annullando il ruolo del sindacato e delle relazioni industriali, risulterebbe insostenibile nel
lungo periodo, non appena il processo di catching-up nei confronti delle economie più sviluppate avrà esaurito i suoi effetti.
Formazione e responsabilizzazione degli attori negoziali sono essenziali per promuovere una cultura delle relazioni industriali a sostegno della produttività. A tal proposito, è interessante notare che in Germania e in Spagna, nei settori dove la produttività costituisce uno degli indicatori economici da tenere in considerazione per stabilire gli aumenti dei minimi salariali, le parti sociali a tutti i livelli sembrerebbero più propense ad operare di
concerto per stimolare incrementi di produttività. In altre parole, quando la produttività costituisce un input per la contrattazione, è più facile che ne diventi ben presto anche un output. Sempre con riferimento a questi temi, ma allargando per un attimo lo sguardo a un Paese non analizzato dal presente studio, va di sicuro colta con interesse la scelta, espressa nel nuovo Codice del Lavoro francese, di mobilitare Università e Grandes Ecoles per la formazione dei sindacalisti (per maggiori approfondimenti, si veda L. CASANO, M.
TIRABOSCHI, Cosa cambia nella regolazione del lavoro in Francia: spunti di riflessione per il caso italiano, Bollettino ADAPT, 1 settembre 2017): un primo tentativo per rendere tra loro permeabili i due mondi.
Non sembra esistere un livello contrattuale privilegiato per rispondere all’esigenza di promuovere la produttività, ma è il coordinamento tra i vari livelli di negoziazione a poter fare la differenza. Quasi del tutto estranee al caso olandese, le spinte al decentramento come via a una contrattazione collettiva declinata alla produttività sono riscontrabili soprattutto in Spagna e in Italia, ma i loro effetti sono ugualmente controversi. In Spagna, infatti, il decentramento ha talvolta indotto le imprese a derogare agli standard minimi di tutela quindi ad optare per una strategia di crescita piuttosto emergenziale. Anche in Italia, gli incentivi legislativi a una contrattazione collettiva di prossimità hanno visto la diffusione tanto di pratiche innovative (come schemi retributivi variabili legati a risultati di performance condivisi o alle competenze espresse dai lavoratori) quanto di interventi meramente distributivi (come premi fissi o connessi a obiettivi di facile raggiungimento), riflesso di un approccio ancora poco orientato alla corresponsabilità. Buone e cattive pratiche di contrattazione hanno quindi coesistito non solo a livello decentrato ma anche nazionale (si veda, ad esempio, il caso dell’Olanda). Inoltre, in alcuni settori, la contrattazione collettiva di primo livello è stata in grado di introdurre e disciplinare istituti rilevanti anche in ottica di
produttività (come gli enti e fondi bilaterali, le commissioni tecniche paritetiche per l’analisi e l’approfondimento di varie tematiche e il diritto soggettivo alla formazione continua), ma a queste pratiche nazionali non sempre ha fatto seguito una coerente contrattazione decentrata.
Oltre a un assetto multi-livello, sono quindi auspicabili la verifica della rappresentatività degli agenti negoziali contro le pratiche di dumping contrattuale (soprattutto in Italia), un miglior coordinamento verticale tra le varie sedi di negoziazione e l’esigibilità delle disposizioni pattuite.
Anche la copertura della contrattazione collettiva sembra avere un ruolo per la produttività. A dimostrarlo è il caso della Germania, dove a fronte di tutele minime garantite ai lavoratori dall’alto livello di copertura contrattuale, i consigli di fabbrica nei luoghi di lavoro sembrerebbero più propensi ad abdicare a un ruolo rivendicativo per adottare un approccio più collaborativo e costruire con l’impresa percorsi di crescita sostenibili.
Lo Stato emerge come un attore abilitante di una contrattazione collettiva a sostegno della produttività. Risultano importanti, ad esempio, le estensioni legislative e giurisprudenziali dell’efficacia delle intese collettive anche ai lavoratori non iscritti ad alcuna
organizzazione sindacale. L’intervento in questi ambiti non deve però minare l’autonomia degli agenti negoziali, che è essa stessa garanzia di una contrattazione collettiva libera da ricatti o pressioni politiche e quindi intrinsecamente più disponibile a una progettualità di lungo periodo. Volendo rafforzare la contrattazione collettiva senza cedere alle tentazioni di ingerenza, l’attore pubblico potrebbe allora puntare al dialogo sociale, ad aumentare le
occasioni di incontro e confronto reciproco, quindi a coinvolgere associazioni datoriali e sindacali ai tavoli decisionali delle imprese, dei settori e dei territori. In Germania, ad esempio, il sindacato IG Metall è responsabile di uno dei cinque gruppi di lavoro del network
nazionale Plattform Industrie 4.0, che avvalendosi del contributo di imprese e rappresentanti datoriali, sindacati e Università vuole accompagnare la transizione dell’economia tedesca al digitale. Simili laboratori multi-stakeholder potrebbero altresì contribuire a soddisfare l’esigenza di responsabilizzare le parti sociali e di accrescere la fiducia reciproca.
Infine, si rende necessario continuare a condurre studi empirici e comparati sul tema della contrattazione collettiva e della produttività, raccogliere sistematicamente i contratti collettivi a tutti i livelli di negoziazione e diffondere le buone pratiche per stimolare uno spirito emulativo. Dai casi-studio mappati da questa ricerca, ad esempio, emerge chiaramente che laddove i sindacati contrattano flessibilità organizzative e salariali,
tendono a chiedere in cambio maggiore coinvolgimento nei processi decisionali. Come se la produttività nell’ambito delle relazioni tra impresa e sindacato non potesse essere, per sua natura, nient’altro che sostenibile, cioè condivisa da entrambe le parti per bilanciare le istanze aziendali con i bisogni dei lavoratori. Se incentivata, questa tendenza nelle relazioni industriali, che è oggi riscontrabile in alcune realtà di Italia, Germania e Spagna, potrebbe forse consentire la creazione di quegli spazi per il confronto comune che sono alla base di una strategia di produttività meno emergenziale e più duratura.

(I. Armaroli, www.bollettinoadapt.it, 13.10.2017)

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