Decontribuzione dei PDR: il “nodo” della partecipazione.

I dati relativi ai contratti aziendali depositati ai sensi dell’art.14 del D.Lgs. n.151/2015, diffusi mensilmente dal Ministero del Lavoro, permettono anche il monitoraggio progressivo dei c.d. premi di risultato o di partecipazione, regolamentati dalla generalità dei CCNL di categoria con specifiche formule, più o meno impegnative, di rinvio a confronti applicativi aziendali.

Un dato costante che emerge dalle estrazioni effettuate dal Ministero, in riferimento sia al totale degli accordi depositati a decorrere da maggio 2016 sia ai singoli mesi, sembra essere la scarsa applicazione della decontribuzione dei valori premiali, che l’art.1 comma 189 della Legge n.208 del 28 dicembre 2015 consente nell’ipotesi di “aziende che coinvolgono pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro”. L’art.4 del DM 25 marzo 2016 specifica poi che deve trattarsi di “strumenti e modalità (…) da realizzarsi attraverso un piano che stabilisca, a titolo esemplificativo, la costituzione di gruppi di lavoro nei quali operano responsabili aziendali e lavoratori finalizzati al miglioramento o all’innovazione di aree produttive o sistemi di produzione”. Si tratta di una agevolazione inizialmente non prevista dalla disciplina di questi trattamenti, in quanto prima della modifica introdotta dall’art.1 comma 55 del D.L. n.50 del 24 aprile 2017 il succitato disposto si limitava, in presenza di coinvolgimento paritetico, ad incrementare a vantaggio del lavoratore prima a 2500 euro, poi a 4000 euro il limite individuale di applicazione della minore imposta, sostitutiva dell’IRPEF, di cui all’art.1 comma 182 della Legge n.208 del 28 dicembre 2015.

Il nuovo criterio ha invece inteso avvantaggiare direttamente le imprese, abbassando il costo complessivo del premio attraverso la riduzione, per una quota dello stesso, del gravame contributivo a carico del datore di lavoro, in aggiunta all’esenzione della contribuzione a carico del lavoratore. L’obiettivo perseguito consiste evidentemente nello stimolare la disponibilità delle imprese ad attivare i sistemi di partecipazione, riconoscendo una agevolazione economica. L’oggettiva scarsa realizzazione di questo risultato, documentata dai dati ministeriali, è forse imputabile anche a due motivi di ordine pratico:

1. l’applicazione all’agevolazione di un limite massimo non molto elevato. A fronte di importi premiali effettivamente erogati che tendono attualmente ad assestarsi – secondo varie indagini retributive – intorno al valore di una mensilità, l’importo agevolato non eccede gli 800 euro lordi/anno, sui quali si applica una riduzione di venti punti percentuali. Considerando una aliquota contributiva a carico del datore di lavoro di circa il 30% (a seconda delle gestioni e delle dimensioni d’impresa) l’agevolazione non può quindi superare, anche in presenza di premialità importanti, circa i 240 euro lordi/anno;
2. la complessità del sistema di partecipazione che sembra consentire l’accesso all’agevolazione, con particolare riferimento all’aspetto procedurale della co-decisionalità.

Questo secondo motivo è forse l’ostacolo operativo più significativo. La normativa prevede infatti una partecipazione di tipo organizzativo che, superando la semplice consultazione preventiva dei lavoratori, entra – con l’obbligo di pariteticità – nella sfera decisionale del datore di lavoro, ma non viene esplicitato direttamente dal combinato disposto dell’art.1 comma 189 della Legge n.205 del 28 dicembre 2015 e dell’art.4 del DM 25 marzo 2016 (che si limita ad una esemplificazione) la modalità del coinvolgimento. I soli riferimenti interpretativi, per la migliore comprensione del dettato legislativo, sono attualmente rinvenibili nel paragrafo 1.2 della circolare dell’Agenzia delle Entrate n.5/E del 29 marzo 2018 (richiamato integralmente dalla circolare INPS n.104 del 18 ottobre 2018), ai sensi del quale:

  • è necessario che le opinioni dei lavoratori coinvolti “siano considerate di pari livello, importanza e dignità di quelle espresse dai responsabili aziendali”;
  • occorre introdurre “schemi organizzativi” formalizzati in un “apposito piano di innovazione” di carattere stabile;– il piano “deve riportare” anche “il ruolo delle rappresentanze dei lavoratori a livello aziendale” che sono quindi necessariamente coinvolte, se costituite.

L’applicazione rigida di queste condizioni sembra pertanto comportare, a prescindere dal sistema di coinvolgimento paritetico effettivamente adottato, una forma di co-decisionalità necessariamente strutturata con modalità molto articolate e formali, che prevedono l’elaborazione di specifici schemi introduttivi di apposite procedure, tra loro integrate a formare un piano complessivo che impegni stabilmente il datore di lavoro, con l’interessamento sistematico anche delle RSU/RSA. Questa impostazione, proposta dall’Agenzia delle Entrate con l’obiettivo di valorizzare l’apporto dei lavoratori e delle loro rappresentanze ai processi decisionali aziendali, si potrebbe tradurre – se non adeguatamente declinata – in un esercizio non semplice e determinare dinamiche poco efficaci. La formula definita dalla circolare n.5/E del 29 marzo 2018, per superare il disposto dell’art.2086 c.c. che attribuisce il potere organizzativo direttamente al datore di lavoro, è infatti particolarmente strutturata e procedurale, può quindi in talune circostanze contrastare con:

  • l’urgenza decisionale che sovente condiziona le soluzioni organizzative necessarie per reagire ad improvvise esigenze aziendali;
  • la partecipazione al gruppo paritetico di soggetti (lavoratori, loro rappresentati, responsabili aziendali) con competenze spesso molto diversificate, circostanza che può rendere difficili o comunque non rapide le sintesi;
  • le esigenze di segretezza industriale che possono limitare il flusso informativo ai lavoratori/loro rappresentanti e complicare quindi le analisi congiunte;
  • l’assenza di personale aziendale con adeguata capacità di elaborazione di schemi funzionali, che può rendere necessario il ricorso a consulenze esterne e/o determinare il rischio di fraintendimenti ed errori o la predisposizione di procedure inefficienti.

Criticità non sempre aggirabili, che possono anche non concretizzarsi ma la cui prevenzione/superamento presuppone una dedicazione di risorse che, se la procedura è rigidamente corrispondente ai dettami della circolare n.5/E del 29 marzo 2018, può risultare:

a) non compatibile con la disponibilità di aziende prive di pregresse esperienze partecipative;

b) non congrua rispetto al ridotto valore dell’agevolazione economica prevista dall’art.1 comma 189 della Legge n.205 del 28 dicembre 2021;

c) non adeguata alla funzione di stimolo che la normativa dovrebbe perseguire.

Le soluzioni innovative infatti sono più facilmente approcciabili se le procedure applicative, che permettono l’accesso alle correlate agevolazioni, sono chiare, semplici e non eccessivamente impegnative. Forse anche per questo motivo la propensione delle imprese ad attivare un modello partecipativo, con le modalità incerte, non semplici e potenzialmente problematiche necessarie per la decontribuzione, secondo le attuali indicazioni dell’Agenzia, non sembra adeguatamente stimolata, come testimoniato dai report ministeriali.

Probabilmente la cultura della partecipazione organizzativa verrebbe più facilmente promossa e diffusa se intervenisse un affinamento dei criteri interpretativi proposti dall’Agenzia delle Entrate. Sarebbero forse opportuni nuovi pronunciamenti che, pur circoscrivendo l’applicazione dell’agevolazione contributiva ai casi di introduzione di sistemi di effettivo e forte coinvolgimento dei lavoratori, secondo le finalità della norma, chiariscano la non necessaria attivazione di una piena ed integrale co-decisionalità con le modalità, articolate e complesse, previste dalla circolare n.5/E del 29 marzo 2018, non sempre realizzabili o non scevre, in varie circostanze, da problematiche operative.

(Stefano Malandrini, Confindustria Bergamo, bollettinoadapt.it)

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