Enrico Grazzini – La Democrazia Economica è il pilastro della democrazia, ma in Italia se ne parla troppo poco

Molta polemica ha suscitato il recente progetto dei 5 Stelle su una riforma del lavoro mirata alla partecipazione diretta dei lavoratori e alla democrazia economica. La polemica si è concentrata soprattutto sulla proposta di diminuire il potere del sindacato tradizionale.

“Difendere il lavoratore significa anche promuovere forme nuove di democrazia e partecipazione sui luoghi di produzione, tagliando al tempo stesso i vecchi privilegi e le incrostazioni di potere del sindacato tradizionale. La presenza e l’incidenza del lavoratore nella governance della propria impresa, per il movimento 5 stelle, va disintermediata” [2].

Ma il dibattito non deve concentrarsi solo e tanto sulla questione sindacale. E’ evidente che i sindacati italiani ed europei sono costretti a riposizionarsi complessivamente e radicalmente di fronte a fenomeni epocali, come la finanziarizzazione dell’economia e delle imprese, la globalizzazione finanziaria, la sfrenata libertà di movimento dei capitali, la concentrazione del governo economico e monetario nelle istituzioni europee, non elette e non sottoposte ad alcun controllo. Tuttavia la vera questione epocale non riguarda tanto il ruolo del sindacato, ma la democrazia economica. Cioè, la partecipazione diretta dei lavoratori e dei cittadini nelle decisioni che riguardano il loro lavoro e la vita economica in generale.

Auspicare la democrazia economica significa riconoscere che la democrazia rappresentativa è subalterna alla finanza globale ed è diventata un simulacro si sé stessa; e significa capire che solo con l’introduzione di elementi di democrazia nell’economia diventerà possibile un vero progresso civile e sociale.

Sul piano politico, di fronte alla crisi della democrazia rappresentativa, molti a sinistra hanno invocato la democrazia diretta. Già qualche anno fa Norberto Bobbio, nel “Futuro della democrazia” spiegava: “Oggi il processo di democratizzazione non consiste tanto nel passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta, quanto nel passaggio dalla democrazia politica in senso stretto alla democrazia sociale, ovvero l’estensione del potere ascendente (dal basso verso l’alto) dal campo della politica al campo della società civile nelle sue varie articolazioni, dalla scuola alla fabbrica, ecc” [3].

La migliore risposta alla gravissima attuale crisi della democrazia rappresentativa – messa sempre più sotto scacco dai mercati finanziari e della speculazione internazionale sui debiti pubblici – consiste nel cominciare a introdurre la democrazia nelle attività produttive e di lavoro, che sono centrali non solo nell’economia ma anche nella vita individuale e sociale dei cittadini.

Le diverse forme di democrazia economica

Democrazia economica può avere molti e diversi significati. Per prima cosa occorre quindi tentare di specificarne il senso e contestualizzarle. Per noi democrazia economica significa che, come accade da sessanta anni in Germania con la Mitbestimmung (co-decisione), i lavoratori possono eleggere i loro rappresentanti nel board delle maggiori imprese private e pubbliche e influire sulle scelte strategiche e sulla gestione aziendale.

Democrazia economica significa anche che i beni comuni dovrebbero essere gestiti autonomamente dalle comunità interessate, a tutti i livelli, locale, nazionale, globale; e che i cittadini dovrebbero potere controllare e cogestire con i loro rappresentanti i servizi pubblici di cui sono utenti e di cui, come contribuenti, sono anche “proprietari”. Il bilancio partecipato nelle città e nei paesi dovrebbe diventare la norma per indirizzare le politiche di spesa a favore dei cittadini e per fare funzionare bene le istituzioni pubbliche. I referendum e le discussioni pubbliche dovrebbero potere decidere anche sulle questioni economiche, sul fisco e sulle spese pubbliche, come accade per esempio in Svizzera e in California. Ma non in Italia.

Senza democrazia economica la democrazia politica, impiccata dal debito e spogliata dalla finanza globale, si svuota della partecipazione popolare, inciampa e rischia infine di cadere nel precipizio dell’autoritarismo, o anche della dittatura. Diventa allora necessario introdurre la democrazia anche nella sfera economica per valorizzare la libertà, la creatività e l’intelligenza delle persone, per difendere e sviluppare la democrazia – una parola che, come noto, trae origine dalla lingua greca e che significa niente di meno che “potere del popolo” – e per uscire finalmente dalla profonda crisi economica in cui ci ha gettato la speculazione finanziaria.

Alle radici della democrazia economica

Le nostre considerazioni sulla democrazia economica hanno molti padri e madri, ma sono cinque le principali radici che nutrono le analisi che esporremo in questo saggio: Elinor Ostrom, Karl Marx, la socialdemocrazia tedesca (nella sua parte più radicale), Rudolf Meidner e i teorici dell’economia della conoscenza.

Elinor Ostrom ha scoperto che le comunità possono gestire le risorse comuni – come l’ambiente, le scienze, Internet, le acque, l’inquinamento e i pascoli – in maniera più efficiente e sostenibile delle corporation e dello stato, e che è auspicabile l’autogoverno dei commons da parte delle comunità per uscire dalla crisi ecologica. Per la scienziata americana recentemente scomparsa occorreva andare oltre lo stato e oltre il mercato per gestire efficacemente i commons [4], che sono le risorse più preziose dell’umanità – basti infatti pensare al valore incommensurabile di beni per forza condivisi come le risorse ambientali e le conoscenze -. Le comunità – comunità locali, nazionali, globali, comunità virtuali – e l’autogoverno democratico dei beni comuni dovrebbero avere un ruolo centrale nell’economia e per la difesa degli equilibri ecologici. Per la studiosa premio Nobel dell’economia la vera democrazia è policentrica, e nessun potere dovrebbe essere così concentrato da prevalere sull’altro.

Marx ha criticato ferocemente la democrazia rappresentativa indicando che lo stato sarebbe rimasto strumento delle classi dominanti fino a quando queste avessero detenuto tutto il potere economico e il pieno controllo dei mezzi di produzione. Per Marx il capitalismo è responsabile dello sfruttamento del lavoro, della servitù e dell’alienazione delle persone. La servitù del lavoro salariato disumanizza l’uomo e gli fa vivere una vita alienata, inutile, una vita estraniata in cui gli è negato di realizzarsi come individuo sociale. Per l’economista e filosofo tedesco la rivoluzione politica, il rovesciamento dello stato borghese e, finalmente, il controllo dei mezzi di produzione da parte del proletariato sarebbero diventati le condizioni per la democrazia sostanziale, per il potere diretto del popolo, per la fine dello sfruttamento, dello stato e dell’estraniazione dell’uomo da sé stesso, e per la piena realizzazione delle potenzialità umane.

La socialdemocrazia del centro e nord Europa ci ha insegnato che, contrariamente a quello che pensava Marx, nei paesi a capitalismo avanzato la rivoluzione non è possibile, e che la dittatura del proletariato, laddove si è instaurata – nei paesi arretrati – è il contrario della democrazia. La socialdemocrazia ci indica anche che la democrazia rappresentativa è un Giano bifronte: non costituisce solo uno schermo per nascondere pudicamente l’esercizio del potere capitalista ma può diventare democrazia di massa per il benessere dei cittadini.

La socialdemocrazia ci dice che conquistare, o anche solo condizionare, il potere economico è molto difficile, e che comunque è necessario seguire strade diverse dalla rivoluzione e dalla “presa del Palazzo d’inverno”. Le forze socialiste (almeno fino a quando ci sono riuscite) hanno cercato di “temperare” il potere economico capitalista soprattutto con l’intervento statale, le politiche keynesiane e del welfare, la redistribuzione dei redditi.

Inoltre la socialdemocrazia tedesca ha imboccato la via della co-determinazione, per la quale i lavoratori eleggono i loro rappresentanti nel board delle aziende e possono quindi co-decidere insieme alla proprietà le scelte strategiche e gestionali delle aziende. Una strada che si è dimostrata vincente non solo rispetto al “socialismo reale” ma anche (come vedremo) rispetto al fallimento del modello anglosassone di corporate governance, in cui tutto il potere è degli azionisti-proprietari.

L’Italia senza nessuna forma di democrazia economica

Apriamo una parentesi relativa alla specifica situazione italiana: a differenza che in Germania e nei paesi del nord Europa con una forte tradizione socialdemocratica, la questione della partecipazione co-decisionale da parte dei lavoratori e dei cittadini alla gestione e/o proprietà delle aziende private, dei beni comuni e dei beni pubblici in Italia disgraziatamente non è (quasi) mai stata approfondita per:

1) il netto rifiuto confindustriale e neoliberista a qualsiasi forma di condivisione del potere aziendale; 2) un orientamento “pan-conflittuale” di tradizione comunista togliattiana e ortodossa (tuttora forte nella CGIL) che rifiuta il compromesso democratico in azienda, ed è invece favorevole a interventi statali dall’alto nell’economia e ai compromessi politici di vertice; 3) un approccio subalterno (prevalente nella CISL e UIL) favorevole alla partecipazione finanziaria dei lavoratori nell’impresa senza però potere decisionale da parte del lavoro; 4) un orientamento neo-corporativo e (per fortuna) inconcludente da parte dei governi (vedi per esempio i progetti Sacconi e Fornero sulla “partecipazione” aziendale). In Italia è così prevalsa l’ottica vetero padronale della Confindustria, a cui dal dopoguerra in poi ha fatto da contraltare (con poche eccezioni [5]) la politica conflittuale nelle aziende e statalista a livello macroeconomico del partito comunista.

La CISL, secondo i dettami cattolici della solidarietà tra le classi, ha debolmente reclamato la “partecipazione” dei lavoratori nell’impresa, senza però pretendere alcun potere aziendale per il lavoro nelle aziende. La verità è che in Italia tra conservatorismo liberista, comunismo statalista, sindacalismo conflittuale, subalternità cattolica, si è affermato un modello autoritario di governo dell’impresa e degli enti pubblici appena temperato dalla capacità sindacale di difesa del lavoro, ma solo quando essa era forte ed efficace, come negli anni ’70. Il potere nell’economia pubblica e privata è rimasto tutto e incontrollato nelle mani delle classi privilegiate, corrompendo la democrazia e i partiti.

Dopo la caduta del comunismo, dagli anni ’90 in poi, la sinistra comunista e socialista italiana ha preferito saltare subito sul carro del vincitore abbracciando l’ideologia liberista che trionfava come “pensiero unico” in tutta l’Europa. E’ capitato così che in Italia non si sia mai effettivamente affermata una cultura riformista socialdemocratica radicale di stampo europeo e scandinavo, e che la questione cruciale della democrazia dal basso nell’economia sia stata praticamente ignorata.

Il socialismo per via finanziaria di Rudolf Meidner

Non a caso in Italia le teorie e le politiche avanzate da Rudolf Meidner – il sindacalista ed economista che ha inventato il “salario di solidarietà” ed è stato protagonista negli anni ’70 del cosiddetto “modello scandinavo” – non sono (quasi) mai state analizzate e proposte [6]. Ispirato dal modello tedesco di co-determinazione, Rudolf Meidner ha suggerito il superamento del capitalismo grazie alla formazione dei fondi dei lavoratori. Meidner ha ipotizzato la “via finanziaria al socialismo” e il controllo delle grandi imprese da parte dei fondi gestiti dal sindacato. Meidner auspicò che, grazie alle pressioni del movimento sindacale e al governo socialista “amico”, fossero approvate nuove leggi che avrebbero costretto i capitalisti a trasferire gradualmente la proprietà azionaria delle maggiori imprese ai fondi sindacali, con aumenti di capitale a loro favore a titolo gratuito [7]. I suoi auspici non si sono mai concretizzati: tuttavia le sue teorie, e perfino i suoi errori, sono ancora fertili.

Economia della conoscenza, cooperazione e lavoratori della conoscenza

Infine i teorici dell’economia della conoscenza ci indicano che la conoscenza e l’intelligenza sono diventati i principali fattori competitivi, la principale fonte della ricchezza delle nazioni, e che per gestire le conoscenze e l’intelligenza occorre sviluppare un nuovo modo di produzione cooperativo e collaborativo [8]. I problemi della conoscenza, così come quelli ecologici, si possono risolvere solo con la collaborazione e l’apertura, e non con la concorrenza e la chiusura degli interessi proprietari.

La ricerca spasmodica del profitto e i recinti troppo stretti della cosiddetta “proprietà intellettuale” ostacolano il progresso della cultura e delle conoscenze scientifiche e tecnologiche su cui si basano le prospettive di sviluppo economico delle nazioni. Gli studi sull’economia cosiddetta post-industriale ci indicano inoltre che sta emergendo nei paesi avanzati una nuova tipologia di lavoratori, i lavoratori della conoscenza, i knowledge o i creative workers [9], e che questi controllano la principale risorsa comune, le conoscenze, e che sono quindi perfettamente in grado di gestire l’economia, più della proprietà finanziaria che però tuttora la controlla con effetti disastrosi. Grazie aiknowledge workers diventa possibile realizzare la democrazia economica e un nuovo modo cooperativo di produzione capace di favorire la liberazione di nuove forze produttive.

NOTE

[1] Questo scritto riprende in gran parte il capitolo introduttivo del libro di Enrico Grazzini “Manifesto per la democrazia economica”, Castelvecchi,editore, 2014

[2] http://www.ilblogdellestelle.it/il_programmalavoro_del_movimento_5_stelle.html

[3] Norberto Bobbio, “Il futuro della democrazia”, Einaudi, 1984

[4] Vedi: Elinor Ostrom, Beyond markets and states: polycentric governance of complex economic systems, discorso tenuto in occasione del premio Nobel, 8 dicembre 2009

[5] Le due principali eccezioni sono state quelle di Rodolfo Morandi, partigiano socialista, economista e politico, con il suo disegno di legge sui Comitati di Gestione nell’immediato dopoguerra; e Ranieri Panzieri, intellettuale marxista, con le sue tesi sul controllo operaio

[6] Paradossalmente uno dei pochi personaggi politici che negli anni ’70 si è dimostrato più interessato alle teorie del “riformista” Meidner sulla democrazia economica è stato il comunista di sinistra Pietro Ingrao.

[7] Vedi Capitale senza padrone : il progetto svedese alla formazione collettiva del capitale / Rudolf Meidner

Roma : Lavoro, 1980; Employee investment funds : an approach to collective capital formation / Rudolf Meidner ,Allen & Unwin, 1978; Il prezzo dell’uguaglianza : piano di riforma della proprietà industriale in Svezia / Rudolf Meidner, Lerici, c1976

[8] Vedi Yochai Benkler La ricchezza della rete, 2007; Egea

[9] Richard Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, 2003, Mondadori; Richard Florida, la classe creativa spicca il volo, 2006, Mondadori; e il classico Daniel Bell, The coming of the post Industrial Society, 1974

(temi.repubblica.it, 25.05.2017)

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