Gianluca Passera – Lavoro: se anche il sindacato si accorge dei propri errori

Mettete un tranquillo giorno di lavoro, di quelli normalissimi per gli operai, a fine turno assemblea sindacale indetta dalla Cgil, ordine del giorno: analisi e votazione della “Carta dei diritti universali del lavoro”. Partecipo volentieri nonostante sia delegato Ugl, soprattutto perché il segretario della Cgil della mia federazione di competenza è persona che ispira non poca fiducia, nelle nostre discussioni ho avuto modo di percepire in lui un forte idealismo.

E con l’onesta genuinità che lo contraddistingue, appena ci sediamo per ascoltarlo, esordisce con una frase che colpisce subito la mia attenzione: “come sindacato abbiamo sbagliato più di qualcosa, abbiamo fatto autocritica e, imparando dai nostri errori, siamo qui a chiedere ai nostri iscritti di portare avanti un nuovo programma”. La proposta e l’assemblea sono incentrate sulla presentazione di un progetto di legge di iniziativa popolare per ottenere un nuovo Statuto dei lavoratori. La frase che ancora di più mi colpisce è la seguente: “ abbiamo perso tempo a curare gli interessi particolari di questo o quel contratto o lavoratore, ma non ci siamo accorti che stavano tirando via dei diritti a tutti, e da qui vogliamo ripartire”. Il documento che mi trovo a leggere è sicuramente importante, l’analisi che viene fatta del mondo del lavoro e della sua frammentazione contrattuale che favorisce la speculazione è sicuramente azzeccata e vista nell’ottica di una forte autocritica delle strutture sindacali è dopo tanto tempo il primo messaggio costruttivo, non ideologizzato e pragmatico che mi capita di sentire. Leggendo il testo, finalmente si parla di lavoro non come forza in contrapposizione, ma come fattore di benessere e di crescita, si parla di diritto al lavoro, di lavoro decente e dignitoso, legittimamente retribuito, insomma tutta quella serie di principi che in Costituzione sono assolutamente già riportati, ma che di questi tempi è bene sottolineare. Continuo a sfogliare e mi trovo davanti alla frase “democrazia, rappresentanza, partecipazione, contrattazione”. Sogno o son desto? Gli articoli 39 e 46 della Costituzione sono rimasti in parte inapplicati, naturalmente l’approccio della Cgil al tema è ancora un poco confusionario, si dibatte tra la democrazia e la rivendicazione del lavoro di decidere di se stesso e del suo futuro, però è nettamente un grosso passo avanti, di fianco alla proposta di estendere modelli partecipativi a tutti i lavoratori, all’affermazione che non sono i datori di lavoro a poter stabilire le regole, né possono sottrarsi alla contrattazione.
Ora, della democrazia partecipativa sappiamo quasi tutto, bisogna però stare attenti ad un passaggio: democrazia e partecipazione, non vuol dire passaggio esclusivo dei poteri decisionali al lavoro, vuol dire presa di coscienza del datore di lavoro della sua responsabilità sociale, inserita in una struttura più grande in cui lo Stato ritorna ad interessarsi attivamente di economia, e non solo come intervento di extrema ratio dettato dal bisogno di evitare sconquassi occupazionali e retributivi che il liberismo e la sua essenza egoistica immancabilmente generano. Democrazia partecipativa vuol dire programmazione, analisi, monitoraggio del mercato, dell’occupazione, delle retribuzioni da parte dello Stato e del sindacato, che al tavolo della contrattazione, non rivendicano solo aumenti salariali, ma propongono riforme strutturali, collaborazione, progettualità, in modo da favorire le imprese nella loro naturale vita economica. Uno Stato che sposta a questo scopo le risorse con ampio anticipo in collaborazione con il sindacato e i datori di lavoro, in modo da riassettare settori che andranno in crisi, ben prima che tale crisi divenga irrimediabile e drammatica. I paesi del nord Europa, oltre ad avere in fase di sviluppo la partecipazione e la democrazia partecipativa, hanno sindacati attivi e attenti alle evoluzioni economiche. Gli Stati commissionano studi economici in modo da prevenire situazioni di disagio, ma tutto passa dalla presa di coscienza che il lavoro non è mero strumento di rivendicazione, non è parte sfortunata a prescindere del sistema, bensì parte attiva integrante e partecipativa oltre che responsabile e obbiettiva.
Al termine dell’assemblea mi complimento con il delegato della Cgil per l’iniziativa mettendolo però in guardia su due cose: la prima, che tale proposta per avere qualche possibilità di riuscita deve essere un cammino intrapreso da tutta la comunità del lavoro e della Nazione, perché se non accompagnata dallo Stato e da tutte le altre forze diverrà l’ennesima riforma mai applicata realmente se non per aumentare la produttività; la seconda è la fronda interna al sindacato: perché imboccare questa strada vuol dire, ammettere errori, mettersi in gioco, essere obbiettivi, rinunciare per molti a privilegi maturati negli anni sventolando la bandiera della lotta di classe e altra demagogia sterile. Che il superamento di questo approccio infantile e controproducente possa porre davvero il sindacato di nuovo al centro del Lavoro e nella possibilità di sostituire al sistema liberista un sistema economicamente e socialmente avanzato?

(www.ilprimatonazionale.it, 28.03.2016)

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