Giovanni Faverin – E nel pubblico impiego 4.0 ?

L’intesa raggiunta sul contratto dei metalmeccanici segna una tappa estremamente importante di quel processo di rigenerazione del nostro sistema produttivo che nel manifatturiero prende il nome di Industria 4.0. E che non consiste soltanto nell’introduzione di tecnologie innovative, ma altresì di forme altrettanto innovative di organizzazione del lavoro.

Ora è tempo di completare il quadro mettendo mano alla realizzazione della PA 4.0: di costruire cioè un modello di sviluppo fondato sull’innovazione organizzativa e la qualità del lavoro anche nel pubblico impiego. E anche qui con l’accordo politico siglato da Cgil Cisl e Uil con il Governo il 30 novembre 2016 si è finalmente trovata la chiave di volta: nuove regole per il cambiamento attraverso la partecipazione e il coinvolgimento cognitivo dei lavoratori e delle loro competenze. A partire dalle piattaforme produttive (le amministrazioni) e quindi dai posti di lavoro, il vero elemento di snodo di ogni processo di trasformazione. Perché finora, nonostante le eccellenze di cui dispone, l’“innovazione di processo e di prodotto” nel sistema pubblico italiano è rimasta una chimera? Bastava digitalizzare l’esistente oppure era necessario ridefinire le regole del gioco, come appunto si è iniziato a fare nel privato?

 

Guardiamo al significato più ampio della trasformazione digitale: quando un nuovo modo di produrre, condividere ed elaborare le informazioni viene adottato su larga scala, si modificano le abitudini, le aspettative e il modo stesso con cui le persone si relazionano tra loro. Nascono nuove potenzialità di creazione di valore, che richiedono forme adeguate per tradursi in valore reale. Non aver colto in questa luce la sfida della modernizzazione del settore pubblico, implica aver rinunciato a monte ad incorporare nelle tante riforme di questi anni la forza rivoluzionaria insita in una modalità di comunicazione multidirezionale, interattiva e collaborativa. Questa è una delle ragioni del disallineamento della PA, rispetto a una società in transizione dall’era delle fabbriche a quella delle piattaforme. PA 4.0 non è la PA che non usa più la carta. Non è nemmeno la completa automatizzazione delle filiere dei servizi pubblici: anche nel contesto della produzione industriale, del resto, non si tratta di escludere il lavoro umano ma di impiegarlo in forme più evolute, in cui possano dispiegarsi le capacità adattive e creative tipiche dell’intelligenza umana. A maggior ragione se parliamo di servizi avanzati alle persone, che implicano competenze complesse sia professionali che relazionali. PA 4.0 è la PA che si ridisegna facendo proprie, organizzativamente e culturalmente, dinamiche e possibilità che la tecnologia le mette a disposizione. È la PA che risponde innovando alla domanda sociale sempre più forte di qualità dei servizi, anziché essere la zavorra che tende a riportare ogni impulso innovatore sui binari del “come si è sempre fatto”. Che sa coordinare le progettualità del territorio legate a smart city, smart citizenship e comunità collaborative, sostenere e mettere a sistema le esperienze autenticamente generative, e magari trarne stimoli per implementare a sua volta nuove modalità di progettazione, organizzazione e offerta dei servizi pubblici. Tutto questo, però, la pubblica amministrazione non può farlo se non coltiva al suo interno nuovi saperi e nuovi approcci, nuove competenze sia hard che soft, nuovi modelli organizzativi. Il salto culturale che genera innovazione non può prodursi come esito di un adempimento di legge. Questa può fornire l’impulso iniziale – ovviamente se è una buona legge, non se è pensata e scritta male – ma il processo di apprendimento organizzativo deve promanare dall’interno: abilitando e sperimentando, e poi mettendo a regime, un modo diverso di lavorare che consenta di coinvolgere di più le persone e liberare le risorse inespresse dell’intelligenza individuale e collettiva. Nel privato lo sgretolamento del paradigma produttivo fondato sulla centralità della fabbrica ha fatto emergere, insieme a tante contraddizioni anche laceranti, nuove identità professionali capaci di integrarsi secondo modelli a rete e di trasformare la vecchia organizzazione aziendale in una struttura più flessibile e resiliente, quindi più competitiva nel senso avanzato del termine. Perché non ipotizzare che liberando le oltre 580 professionalità del pubblico impiego, passando da una logica passivizzante fondata sulla gerarchia e sulla prescrizione ad una “attivante”, non si possa imprimere un’accelerazione virtuosa alla riorganizzazione del sistema e creare reti, dentro e fuori dalla PA, produttrici di valore per una società che cambia? Un problema ricorrente, nella narrazione ufficiale sulla smart public governance, è che sembra mancare il collegamento tra l’esortazione a mettere in campo una progettualità innovativa nei servizi pubblici e quello che si può fare attraverso il coinvolgimento cognitivo dei lavoratori – e attraverso la contrattazione – affinché questa prenda forma. I lavoratori pubblici sono evocati raramente e per lo più in veste di meri esecutori, quasi mai di stakeholder e depositari, insieme ai cittadini utenti, di conoscenze utili ad orientare la progettazione stessa. Un sindacato innovatore deve sfidare questa cecità selettiva, inserirsi da coprotagonista in questi percorsi e individuare in essi le leve per sviluppare e valorizzare le professionalità pubbliche. Darsi – e proporre ai suoi interlocutori – parole chiave sulle quali si possa impostare una progettualità sociale che riguarda sia la PA nella comunità che la PA come comunità, facendo in modo che la realizzazione di nuovi servizi (o una riorganizzazione radicalmente migliorativa) diventi un atto di co-creazione di valore pubblico. La prima è apprendimento continuo. Una PA che vuole farsi “intelligente” non può non fare il miglior uso possibile del proprio capitale cognitivo. E dunque deve tornare a investire nei suoi uomini e donne, offrendo a tutti opportunità e incentivi per crescere professionalmente secondo percorsi flessibili, adattabili alle potenzialità del singolo e alle esigenze del contesto in cui opera. In una società in cui il motore della produzione di valore è la conoscenza, tutte le competenze vanno continuamente aggiornate e tutte le professionalità devono ri-concepirsi come percorsi in divenire.  La seconda è lavoro agile. Non il vecchio telelavoro, che presupponeva estendere la rigidità tipica delle burocrazie anche fuori dallo spazio fisico dell’ufficio. Ma un modello organizzativo che guarda anche oltre la logica della conciliazione famiglia-lavoro, pur rappresentandone uno degli strumenti chiave. E prevedere quindi, non più come eccezione ma per default, non lavoratori vincolati a una scrivania, a un mansionario e a una serie di adempimenti formali, ma autonomi nel gestire le proprie risorse di conoscenza, competenza ed esperienza umana e professionale, riconosciute per titolo o acquisite e validate sul campo, e responsabili della qualità delle proprie prestazioni in vista di un risultato che richiede l’impegno coordinato di tutti. Un modello duttile, che sfronda le ridondanze procedurali perché non obbliga a standardizzare, ma permette di assemblare il servizio in rapporto alla situazione specifica e al bisogno individuale. Più motivante e gratificante, perché ad informare le relazioni del lavoratore con i superiori, con i colleghi e con gli utenti è appunto il senso di responsabilità, non la paura di sanzioni; la fiducia reciproca (unita a criteri oggettivi e trasparenti di verificabilità), non il controllo. Un modello relazionale, ed è questa la grande novità che la connettività globale sta portando anche nel mondo del lavoro: la consapevolezza che nella società della conoscenza i processi non si ottimizzano frammentandoli in “unità di lavoro” e guardando ossessivamente all’efficienza di ciascuna unità presa a sé. È nella relazione, nella connessione collaborativa, che si genera il valore aggiunto rispetto ai costi sostenuti per alimentare il sistema. La performance migliora ridisegnando e valorizzando l’interazione tra le persone. È tempo di iniziare ad allineare la PA a questo nuovo paradigma, anche se il cammino è lungo e tutto da tracciare, anzitutto dal punto di vista normativo. La terza – ma certo non ultima – è partecipazione. Finora la retorica, spesso anche la pratica, della “partecipazione dei cittadini” ha intersecato ben poco il tema della partecipazione dei lavoratori che il sindacato, la Cisl in particolare, ha posto con forza per il lavoro pubblico come per quello privato. La partecipazione, invece, può realizzarsi con modalità che partono all’interno della PA e aprono verso l’esterno, creando un vero e proprio continuum dell’innovazione organizzativa e sociale. E che possono avere nel sindacato un promotore formidabile, nella misura in cui saprà esaltare il ruolo delle rappresentanze di ente e trovare le giuste formule per integrare la partecipazione esercitata attraverso di esse con nuove forme di partecipazione diretta dei lavoratori. Un “sindacalismo 4.0” per spingere l’evoluzione organizzativa della PA. In questa prospettiva il rinnovo dei contratti nazionali e la ridefinizione delle relazioni sindacali non sono di per sé la panacea che trasforma un apparato novecentesco in infrastruttura intelligente del secolo digitale. Ma creano le condizioni affinché l’innovazione partecipata metta radici in tutto il sistema pubblico, risolvendo anzitutto una serie di ambiguità e storture nate dall’affastellarsi scoordinato di riforme per quasi un decennio. Partendo da una premessa che, nell’accordo per il lavoro pubblico, si è tradotta in impegno preciso da parte del Governo: occorre riequilibrare il rapporto tra legge e contrattazione a favore di quest’ultima, e individuare ambiti ulteriori in cui la partecipazione sindacale possa esercitarsi e diventare essa stessa una leva potente di innovazione organizzativa che trova il suo cardine nel posto di lavoro. Riassegnare alla corresponsabilità delle parti gli aspetti organizzativi dei rapporti di lavoro – formazione, flessibilità oraria, mobilità, monitoraggio dei fabbisogni di personale, valorizzazione delle competenze, un sistema di valutazione basato su criteri che riconoscano l’apporto individuale e al tempo stesso esaltino la performance collettiva – rappresenta oggi un traguardo, ma a partire da domani potrà e dovrà diventare a sua volta il punto di partenza per sperimentazioni ancora più avanzate, da progettare e applicare amministrazione per amministrazione, per portare innovazione nei più diversi ambiti dei servizi pubblici, coinvolgendo attivamente i lavoratori e i loro rappresentanti nel luogo stesso in cui si realizza il processo produttivo. Possiamo ad esempio, invece di fomentare la competizione interna tra le persone, incentivarle ad auto-organizzarsi in team di lavoro, in modo da gestire meglio carichi e orari valorizzando il ruolo e il contributo di ciascuno. Così come possiamo abbattere la separazione tra uffici e costituire gruppi di progetto intorno a obiettivi o problemi complessi, che richiedono un approccio trasversale e multidisciplinare: si metterebbe a valore l’enorme varietà di profili professionali di cui dispone la PA consentendo un arricchimento reciproco tanto dei singoli quanto degli enti, che sarebbero facilitati nel maturare visioni d’insieme e sinergie operative. Possiamo incorporare strutturalmente nei processi decisionali input e feedback dei lavoratori, organizzando briefing frequenti per informare, discutere, raccogliere osservazioni e suggerimenti. Possiamo costituire communities sui social media come spazi collaborativi virtuali, in cui lasciare che si aggreghino spontaneamente comunità professionali che scambiano, confrontano e condivi- dono conoscenze ed esperienze, e si possa comunicare in maniera più aperta con gli utenti. Possiamo infine sperimentare metodologie progettuali collaborative, come il co-design dei servizi: cercare risposte ai bisogni con un approccio pratico e creativo, attivando laboratori aperti con lavoratori e cittadini per far emergere soluzioni innovative dal basso e tradurle in prototipi da testare e perfezionare, prima di implementarli su larga scala o, meglio ancora, renderli disponibili come modelli replicabili e adattabili a diversi contesti. Ridefinito un quadro normativo che finalmente non comprime, ma abilita e incentiva la contrattazione dal livello nazionale fin dentro ad ogni singolo ente, toccherà a questa creare le condizioni diffuse per una compartecipazione attiva, responsabile e motivata dei lavoratori pubblici alla sfida dell’innovazione. E la “PA 4.0” potrà esserne non solo abilitatrice a beneficio di altri soggetti sociali e produttivi, ma incubatrice essa stessa di innovazione e valore pubblico costruito sulle competenze e le professionalità delle persone.

(www.compartosanita.it, 15.12.2016)

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