Intelligenza artificiale. Il Fondo monetario ha paura dei robot al lavoro.

«Dobbiamo avere paura della rivoluzione dei robot?» si chiedevano in un incontro dello scorso dicembre gli esperti del Fondo monetario internazionale e quelli del campus asiatico dell’Insead, la scuola della classe dirigente francese il cui Mba è al primo posto della classifica dei corsi per manager elaborata dal Financial Times. La questione degli effetti che l’automazione e l’intelligenza artificiale possono avere sul mondo del lavoro e sulle nostre economie da qualche anno è uno dei temi più discussi dagli economisti, che si dividono in ottimisti e pessimisti, con qualche via di mezzo.

Le cronache di quel seminario raccontano che gli esperti di Insead e Fmi erano concordi su un punto: la rivoluzione dei robot è un fenomeno in così rapida evoluzione e con così enormi implicazioni globali che è impossibile fare previsioni organiche. Passati cinque mesi, però, i ricercatori del Fmi hanno le idee già molto più chiare: lunedì scorso hanno pubblicato uno studio che riprende la domanda che ha fatto da titolo a quel seminario, ma con l’aggiunta della risposta: «Dobbiamo avere paura della rivoluzione dei robot? (La risposta corretta è sì)».

Gli studi allarmanti (o allarmistici, dipende dal punto di vista) su quello che rischiano i lavoratori dall’avanzata dei robot abbondano. Il colosso della consulenza McKinsey ha previsto che una rapida adozione dei processi di automazione da parte delle aziende può portare da qui al 2030 al licenziamento di 800 milioni di persone. Un continente di disoccupati, dove alcuni riusciranno ad adattarsi e rientrare nel mondo del lavoro mentre altri, anche rimettendosi a studiare, non riusciranno a tornare “occupabili”.

Altre ricerche autorevoli hanno portato risultati simili. La percentuale di lavori «altamente automatizzabili» oscilla tra il 14% indicato dall’Ocse e il 54% (riferito alla sola Europa) indicato dal centro di ricerca Bruegel. Abbondano anche le risposte ottimiste a questi scenari foschi. Due su tutte: la formazione e l’aggiornamento dei lavoratori a cui i robot hanno soffiato il posto può consentire loro di ritrovare un impiego, mentre tradizionalmente l’innovazione tecnologica ha sempre creato lavori nuovi al posto di quelli che venivano automatizzati. Se i robot fanno il lavoro ‘sporco’, gli esseri umani faranno altro.

Lo studio del Fmi ha il merito di riprendere le conclusioni della letteratura scientifica sul tema lavoro-robot e di metterle alla prova secondo un modello macroeconomico che presenta due novità. La prima, nel bicentenario della nascita di Karl Marx, è quella di inserire i robot nella tradizionale dicotomia lavoro-capitale considerandoli come una forma speciale di capitale, diverso da quello tradizionale perché capace di aumentare la forza lavoro e di sostituirla.

La seconda, sulla base di quello che già succede negli Stati Uniti e in altre economie avanzate, è quella di dividere gli esseri umani in due gruppi: quello dei capitalisti che risparmiano e investono (e in alcuni casi fanno lavori specializzati) e quello dei lavoratori, che invece guadagnano abbastanza da coprire le loro spese ma non riescono a risparmiare. I ricercatori hanno preparato quattro scenari: da quello più ‘ottimista’, in cui i robot competono con gli umani solo per alcune attività specifiche, a quello più ‘pessimista’, in cui i robot sostituiscono gli umani in tutti i tipi di attività.

Comunque la si metta, i risultati dei calcoli del Fondo monetario dicono che la rivoluzione dei robot farà salire il Pil ma anche crescere le diseguaglianze. «I nostri principali risultati sono robusti rispetto a tutti i differenti modelli. In ogni variante, incluse quelle riconducibili all’ottimismo tecnologico, l’automazione è molto positiva per la crescita e molto negativa per l’uguaglianza». Concretamente, lo studio mostra come l’introduzione dei robot inizialmente abbassi i salari degli umani che si trovano in concorrenza con l’intelligenza artificiale, aumentando così sia la redditività del capitale tradizionale che quello speciale. Dopodiché, nel lungo termine, i salari si risollevano a causa della scarsità di lavoro umano a disposizione.

Solo che questo “lungo termine”, nei risultati dei calcoli del Fmi, arriverebbe non prima di 20 anni e potrebbe anche iniziare dopo 50 anni. I salari di almeno due o tre generazioni, in questo caso, sarebbero vittime della rivoluzione dei robot. Per quanto riguarda le diseguaglianze, le stime del Fmi dicono che salirebbero sempre, anche nel lungo termine: aumenterebbero drammaticamente se i robot sostituissero solo i lavoratori non specializzati, ma crescerebbero anche nel caso in cui anche gli impieghi più complessi fossero automatizzabili.

A una prima analisi anche le principali visioni ottimiste faticano a reggere. L’idea di uomini che fanno lavori complementari a quelli dei robot «aiuta meno di quanto si possa pensare, in parte perché sarebbero sempre di più i lavoratori che competono per quegli impieghi, spingendo verso il basso il salario medio». La risposta educativa ha anch’essa i suoi limiti. La formazione può convertire un lavoratore non specializzato in un lavoratore specializzato, riducendo così le diseguaglianze nei redditi, ma non contrasta il calo medio degli stipendi e non compensa comunque il crollo dei redditi dei lavoratori che restano non specializzati.

Il cambiamento è drastico e chiede risposte politiche. I ricercatori del Fmi invitano gli economisti a studiare i possibili effetti di soluzioni che portino al trasferimento di ricchezza da chi ha il capitale ai lavoratori. Il reddito di base universale è una strada possibile. La partecipazione dei lavoratori all’azionariato dell’azienda – soluzione che è la norma in Germania ed è da tempo invocata dai sindacati in Italia, con la Cisl in testa – è un’altra possibile forma di condivisione dei redditi del capitale tra capitalisti e lavoratori, con il merito di legare con più forza i dipendenti all’impresa.

Anche su questi punti, però, lo studio non invita all’ottimismo. Tassare il capitale all’origine per finanziare misure di questo tipo, avvertono i ricercatori, presenta problemi concettuali e pratici. Concettuali perché i risultati dei loro calcoli dicono che è proprio l’accumulo di capitale, e non la produttività totale dei fattori, a spingere il Pil nell’era dei robot. Quindi tassandolo si zavorra la crescita. Il limite pratico, che i governi delle economie avanzate conoscono già bene, è la difficoltà di tassare i capitali in un contesto di mercati globali e libertà di spostamento dei flussi finanziari. Difficile “tassare i robot”, come propone Bill Gates, se il loro proprietario è una fiduciaria basata alle Isole Cayman.

(P. Saccò, www.avvenire.it, 24.05.2018)

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