Intervista a Franco Martini (CGIL)

Martini fotoLa partecipazione dei lavoratori costituisce da tempo un pilastro centrale in molti contesti esteri (in particolare dell’area renano-scandinava) che ne hanno saputo fare un fattore strategico in ottica di competitività economica e inclusione sociale; contesti che si distinguono sullo scenario globale per relazioni industriali costruttive e finalizzazione comune verso l’interesse primario aziendale. Quali le potenzialità socio-economiche?

Non vi è dubbio che la partecipazione dei lavoratori, se inquadrata in un modello di relazioni industriali innovativo, costituisce una risorsa per lo sviluppo delle imprese e, più in generale, per la crescita economica del Paese. Proprio per questo la recente proposta unitaria di Cgil-Cisl-Uil la assume come uno dei tre pilastri sui quali poggiare un moderno sistema di relazioni industriali, determinando con ciò un importante salto di qualità nella cultura delle relazioni.

Ciò appare ancora più determinante in un momento particolare della vita del nostro Paese, dove la ricerca di vie di uscita dalla lunga crisi impone scelte che vadano oltre la contingenza, che superino il limite degli interventi emergenziali. L’Italia ha bisogno di definire con maggiore nettezza in quale direzione orientare il proprio sviluppo, tanto più che i timidi segnali di ripresa confermano la relativa debolezza del nostro sistema economico e produttivo rispetto agli altri Paesi competitori, dove la ripresa appare più solida della nostra.

Il sistema delle imprese si trova di fronte alla necessità di compiere scelte strategiche di medio e lungo termine, per elevare la propria forza competitiva, in uno scenario dove la rivoluzione tecnologica e dei mercati già impongono profondi cambiamenti nei processi organizzativi, verso l’innovazione e la qualificazione dei fattori produttivi.

Il lavoro rappresenta, indubbiamente, una delle principali risorse dell’impresa ed è per questo che la possibilità di renderlo partecipe alle scelte che ridefiniscono il futuro di una impresa non può che favorire il raggiungimento degli scopi. Ovviamente, la partecipazione dei lavoratori non può essere vissuta come il toccasana dei problemi, sapendo che il deficit di competitività delle imprese italiane, la bassa produttività media dei sistemi produttivi ha origini anche e soprattutto nelle profonde diseconomie esterne, senza il superamento delle quali, qualunque sforzo che si esaurisse all’interno delle mura aziendali rischierebbe di essere vanificato.
Tuttavia, la partecipazione, che non annulla la dialettica, a volte anche accesa, tra lavoratori e imprese, costituisce un indubbio valore aggiunto, del quale sarebbe sbagliato e limitativo fare a meno. Proprio per questa ragione, il sindacato, unitariamente, ha lanciato questa sfida alle imprese, alle loro associazioni di rappresentanza, che, notoriamente nel nostro Paese, non hanno mai caldeggiato lo sviluppo di questa esperienza.

Quali gli elementi che ne hanno impedito il decollo in Italia?

Oltre a quanto già detto precedentemente circa lo scarso entusiasmo delle imprese, a conferma di una loro natura molto familista, individualista, spesso autoritativa, vi sono ragioni soggettive e oggettive. Soggettive, che riguardano lo stesso sindacato, nel quale, dove più, dove meno, ha per anni prevalso una cultura delle relazioni fondata prevalentemente sul conflitto, quale terreno di rivendicazione.
Tuttavia, sarebbe sbagliato affermare l’inesistenza di ogni traccia della partecipazione nella lunga storia del sindacalismo confederale. Ad esempio, la consolidata esperienza della bilateralità e più recentemente del welfare contrattuale, hanno costituito terreni sui quali sperimentare forme di partenariato, di collaborazione, finalizzata al raggiungimento di obiettivi qualitativi, come, ad esempio, la formazione professionale, purtroppo in molti casi vanificata dal dilagare delle forme di lavoro precario, che inevitabilmente appaiono opposte all’investimento sul capitale umano.

Tra le ragioni oggettive non possiamo non sottolineare la caratteristica del sistema produttivo italiano, costituita da una larga diffusione di sistemi di piccole e medie imprese, un consistente comparto artigiano, dove la partecipazione in una ottica aziendale appare quanto mai complicata. Del resto, le stesse politiche istituzionali non hanno offerto molti stimoli nel corso di questi decenni, tant’è che l’articolo 46 della Costituzione e’ stato fino ad oggi inattuato. Non di meno limitativo è stato l’appannamento del dialogo sociale in sede europea, smarrendo il senso dell’art. 31 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’EU. La partecipazione presuppone la condivisione di obiettivi, finalità e sintesi fra interessi diversi. Purtroppo, la profondità della crisi di questi anni ha fatto emergere spinte di segno opposto, egoismi, individualismi, corporativismi, nazionalismi. Occorre recuperare lo spirito iniziale, per produrre politiche di sostegno ai processi partecipativi, sia in sede nazionale, che comunitaria.

Quali le prioritarie strategie a livello legislativo e di parti sociali, complementarmente ai temi della rappresentanza e della contrattazione, per una riforma sistemica delle relazioni industriali italiane?

Quanto previsto nella recente Legge di Stabilità rappresenta già un primo segnale concreto. Infatti, l’aver introdotto fra i criteri per accedere ai benefici della detassazione accordi che prevedono esperienze di partecipazione in azienda è indicativo di una strada che va incentivata e sostenuta.

Naturalmente, occorre dire che la nostra esperienza deve necessariamente individuare una via italiana alla partecipazione. Non sono, infatti, automaticamente esportabili le esperienze Nord-Europee, per l’ovvia ragione che la presenza di imprese di grandi dimensioni è molto più ridotta nel nostro Paese. La peculiarità italiana consiste nella larga diffusione di sistemi diffusi di imprese, dove alla dimensione aziendale si somma quella territoriale, di distretto, di filiera, ed altro ancora. Qui occorre un grande sforzo di elaborazione ed una grande disponibilità delle parti sociali alla sperimentazione.

Ciò detto, la proposta unitaria dei sindacati individua tre aree di partecipazione, una alla governance, una organizzativa e una economico/finanziaria. La prima rappresenta un’area strategica ai fini delle scelte economiche e dei programmi di investimento aziendali. Questa forma di partecipazione prevede la presenza dei dipendenti nei consigli di sorveglianza, che debbono essere sedi di reale condizionamento della gestione aziendale. La partecipazione organizzativa, che può rivolgersi anche alle PMI, può concorrere all’innovazione dei processi produttivi ed organizzativi. In questo caso la partecipazione può trovare certezza formale sul piano contrattuale e della bilateralità, rendendo pienamente agibili i diritti di informazione e consultazione, attraverso la proceduralizzazione di sedi, tempi e strumenti. Infine, la partecipazione economico/finanziaria, attraverso modalità di adesione nel rispetto della volontarietà dei singoli, valorizzando l’apporto del lavoro allo sviluppo dell’impresa.
Su queste basi i sindacati unitariamente intendono lanciare una sfida al mondo delle imprese e rivendicano il sostegno delle istituzioni, attraverso strumenti legislativi e risorse finalizzate. In Parlamento sono depositate alcune Proposte di Legge sulle quali poter aprire un confronto con le parti sociali. La direzione di marcia è stata individuata. Si tratta di produrre esperienze concrete per verificarne il reale valore in relazione allo sviluppo del Paese.

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