Intervista a Mario Sai

Mario Sai è responsabile dell’Ufficio Studi della Camera del Lavoro di Milano. Insegnante, pubblicista, dirigente sindacale. Dagli anni ottanta si è occupato del rapporto tra innovazione tecnologica e cambiamenti nel lavoro da diverse angolature. Come presidente di commissione al Cnel, designato dalla Cgil, ha coordinato dal 1998 al 2004 la stesura dei «Rapporti sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione» in Italia.

Esiste una via italiana alla partecipazione?

Se si guarda a ciò che è avvenuto negli ultimi trent’anni nelle imprese italiane, in particolare in quelle che hanno affrontato la competizione nel burrascoso mare della globalizzazione riorganizzando e innovando il loro sistema di produzione, la risposta è sì e ha metodiche definite: world class manufacturing e lean production, cioè il toyotismo e le sue varianti. Se si guarda alla politica non si è mai data operatività al “diritto dei lavoratori a collaborare , nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle imprese” (art.46 della Costituzione), rimanendo mischiati nella discussione e nella legislazione problemi diversi . Ne è prova il testo confuso, ma sintomatico della legge Fornero di riforma del lavoro: presenza nei Consigli di amministrazione; azionariato dei dipendenti; partecipazione diretta all’organizzazione del lavoro. Il Jobs Act ha poi sancito un potere unilaterale di iniziativa da parte delle imprese.

Quale è stato il ruolo delle forze sindacali in questa fase di trasformazione ?

Per quanto riguarda il sindacato, su questo tema si sono confrontate e scontrate culture diverse, più collaborativa e aziendalistica quella della CISL, più autonoma e conflittuale quella della CGIL.

La questione vera è che in questi anni si è rafforzata la capacità delle imprese di governare i conflitti , a cominciare da quelli che si manifestano nei luoghi di lavoro. Sta qui la forza del sistema di produzione toyotista, che gli ha permesso di mettere fuori gioco esperienze di partecipazione negoziate tra gli anni settanta e gli anni novanta, dalla Volvo alla Olivetti, per citare due casi emblematici . Mentre il taylorismo imponeva gerarchia e parcellizzazione del lavoro (ma poi non controllava gli aggiustamenti informali dei lavoratori nel processo produttivo), nel sistema Toyota il lavoratore non è più ingranaggio, ma diventa un nervo autonomo dell’organizzazione del lavoro. Deve condividere le finalità strategiche dell’impresa e ricevere in cambio riconoscimenti (stabilità occupazionale, premi, welfare aziendale); deve immedesimarsi, senza alcuna mediazione sindacale, nella comunità aziendale e insieme riceverne rispetto (valorizzazione professionale, formazione, carriera). Il terreno della partecipazione in questo nuovo aziendalismo è caratterizzato da engagement e respect; organizzato per circoli di qualità, cassette delle idee (ora, in epoca di social, di call for ideas); di team-work. La nuova rete di relazioni di lavoro – e personali – ha come nodi non più i delegati sindacali, ma i team leader. Non più capi, ma coach, attraverso cui la voce del management arriva direttamente sul posto di lavoro per spronare al miglioramento continuo e, insieme, dare informazioni e risposte. L’arretramento del potere sindacale nei luoghi di lavoro si può misurare anche così: laddove per anni ci sono stati tanti delegati e pochi capi, ore ci sono tanti team leader e pochi eletti delle RSU.

Il passo in avanti che CGIL, CISL e UIL hanno fatto con il documento del 2016 “ Per un moderno sistema di relazioni industriali”, individuando nella partecipazione autonoma e responsabile dei lavoratori un elemento centrale della strategia sindacale, è importante, ma deve muovere con la consapevolezza dello spostamento dei rapporti di forza. In questi due anni si è proceduto in modo lento e accidentato. Nell’accordo del febbraio di quest’anno tra Confindustria e sindacato “ Contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva” la questione della partecipazione è lasciata agli accordi aziendali e di categoria, mentre sarebbero state necessarie linee guida condivise, soprattutto in una fase di innovazione tecnologica. Nel riconoscimento che “ si vanno diffondendo, in particolare nelle imprese collocate nelle filiere produttive più dinamiche e innovative, modalità di partecipazione più efficaci e incisive rispetto al passato con particolare riferimento agli aspetti di natura organizzativa”, ci può stare un ribadimento che i nuovi processi di digitalizzazione devono svilupparsi dentro ambienti organizzativi lean, segnati da un intreccio di controllo e consenso e marginalità del sindacato, oppure possono crescere, dentro i “percorsi di sperimentazione” indicati dal documento, nuove forme negoziate di co-progettazione e co-decisione, forzando l’ ossimoro della “partecipazione in via gerarchica” del toyotismo.

Il prossimo passo per rafforzare la cultura della partecipazione ?

Accogliere la sfida della partecipazione, ricostruendo assieme ai lavoratori e ai rappresentanti sindacali una capacità autonoma di iniziativa, utilizzando al meglio i diritti di informazione, la pratica dell’inchiesta, i processi formativi, è condizione per governare il salto tecnologico in atto e i suoi esiti sociali. La Germania del mitbestimmung, nonostante arretramenti e contraddizioni, ha la più bassa percentuale di disoccupati; la Svezia della codeterminazione cresce il doppio della media UE. Là, però, ci sono una politica economica e industriale, una legislazione di sostegno. Da noi la politica, in particolare quella di sinistra, è “incapace di cogliere nell’organizzazione e nella trasformazione del lavoro il cuore della questione politica”. Lo notava amaramente Trentin all’inizio di questo cambiamento. Ora la questione sociale trova a destra nuovi interpreti. Ne scapitano non solo i lavoratori, a cominciare da quelli che se ne fanno convincere, ma la democrazia e il Paese.

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