Intervista ad Ambra Tessera

A. TesseraCi parli di lei…

Mi chiamo Ambra Tessera e sono una sindacalista del settore chimico farmaceutico, tessile e manifatturiero di Milano. La federazione a cui appartengo si chiama FILCTEM CGIL.

Provengo da un’azienda del settore chimico farmaceutico nella quale ho vissuto in prima persona cosa significa lavorare e avere, quindi, dei diritti e dei doveri.

Mi sono occupata dei bisogni e dei sogni dei lavoratori prima come delegata sindacale e poi come funzionaria.

Per svolgere il mio lavoro al meglio, mi impegno nel realizzare buone relazioni industriali, attraverso un dialogo aperto, trasparente e produttivo che privilegia il lato umano di ognuno. Solo in questo modo, nel rispetto di ogni ruolo e con senso di responsabilità individuale e collettiva, sono convinta sia possibile sviluppare una cultura realmente partecipativa. Come persona e sindacalista ho un sogno: la ripresa del movimento unitario dei lavoratori e del sindacato, che ponga con forza nell’agenda politica la questione della partecipazione dei lavoratori alla governance dell’impresa.

Il suo punto di vista sulla partecipazione dei lavoratori all’impresa e sul ruolo del sindacato per favorire questa partecipazione?

Credo sia ormai tempo di pensare concretamente a una normativa che favorisca la partecipazione dei lavoratori alle attività decisionali dell’impresa. La nostra Costituzione, all’art. 46, recita: “… la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.”Il compito di costruire le regole per la partecipazione dei lavoratori all’impresa è affidata al legislatore, ma in tutti questi anni nessun dei nostri governanti ha mai regolamentato quest’aspetto, come invece avvenne già nel 1975 in Germania, con la socialdemocrazia di Willy Brandt.

Nel nostro ordinamento è prevista la possibilità per le S.P.A. di adottare il sistema di amministrazione dualistico, che prevede un Consiglio di amministrazione e uno di sorveglianza. Il problema è che, per legge, non è prevista la nomina da parte dei lavoratori di uno o più membri nel Consiglio di sorveglianza. Più esattamente, nel 2003 il Governo Berlusconi ha volutamente escluso la cogestione, che invece è il cuore del modello tedesco.

Parimenti, il dibattitto all’interno del sindacato non è sfociato in una posizione unitaria sull’argomento partecipazione. Probabilmente le ragioni storiche di questa latitanza sulla tematica della cogestione sono da ricercare nella forte conflittualità tra lavoratori e imprese, che ha segnato le relazioni industriali fino ad oggi.

Non dimentichiamo poi che lo Statuto dei Lavoratori è diventato legge nel 1970, con l’avvento del primo governo di centro sinistra, un pò in ritardo rispetto a ciò che è scritto nella Costituzione del 1948. Durante tutti questi anni l’argomento è rimasto quindi confinato tra i casi di studio e di analisi comparativa con i sistemi del nord Europa.

Finalmente,nel gennaio del 2016, CGIL-CISL-UIL scrivono un documento molto importante dal titolo “UN MODERNO SISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI”, che supera le divisioni del passato e apre la strada ad un modello di sviluppo industriale fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro, costruito su tre pilastri: contrattazione, partecipazione e regole.

Al capitolo ‘partecipazione’ si legge:

“…CGIL CISL UIL considerano fondamentale la partecipazione dei lavoratori nei Consigli di sorveglianza, che devono essere sede di reale condizionamento della gestione aziendale anche se in un equilibrio non necessariamente paritario, nei quali siano chiaramente distinti i ruoli del management e dei lavoratori ma in cui sia anche data piena e formale cittadinanza nelle decisioni ai rappresentanti espressi / eletti dai lavoratori”.

Bene, ma siamo solo alla teoria: a quando la traduzione in pratica delle nostre volontà? Quanto ci crediamo davvero? Solo il nostro modo di agire ci darà la misura della nostra determinazione. Nel frattempo i lavoratori partecipano alle attività dell’impresa quotidianamente, attraverso il loro contributo per svolgere le attività produttive o di servizio. in quanto portatori di un sapere utile al sistema aziendale.

È noto come la formazione tecnica sia in grado di contribuire a migliorare i parametri produttivi. Meno facile è riconoscere l’utilità di ascoltare i pareri dei lavoratori sui processi produttivi e considerare le loro proposte nella definizione e modifica delle procedure lavorative. Ci sono aspetti materiali di grande importanza che, con il passare del tempo, abbiamo imparato a normare e contrattare con le aziende: tra i tanti cito i premi di partecipazione, le modifiche agli orari di lavoro, il welfare contrattuale, aziendale, la permessistica ecc… Anche la formazione dei lavoratori può essere contrattata. Purtroppo, almeno fino ad ora, le scelte sia delle tematiche sia dei fruitori della stessa formazione, sono per lo più demandati alla sola parte aziendale.

Durante la mia attività di sindacalista, però, ho potuto constatare che nel tempo in diverse realtà aziendali si è affievolito quel senso di appartenenza così caro alle aziende e così necessario per il “ben lavorare”.

Perché cresce la disaffezione dei lavoratori verso l’impresa? A mio parere perché il sistema azienda stenta a riconoscere pari dignità, pari valore alle parti che lo costituiscono. I lavoratori sono ben consapevoli del valore/non valore che viene loro attribuito: vedono con chiarezza la volontà aziendale di marcare le distanze. Che il sistema non sia paritetico è palese. Si tratta di capire come superare questa situazione, dannosa per l’azienda quanto per chi ci lavora. Scarseggia ancora una cultura diffusa tra gli imprenditori e lavoratori a favore di un modello partecipato e una legge, a mio avviso, contribuirebbe a introdurre un ‘cambio di passo’.

Quale il ruolo potenziale della formazione in un percorso di sviluppo del modello partecipativo nel contesto italiano?

La formazione serve per dare strumenti opportuni per svolgere meglio il proprio lavoro. Il sindacato può giocare un ruolo importante come promotore di un nuovo modello formativo che consideri fondamentali, oltre alle materie tecniche e di sicurezza, quelle relazionali e organizzative. Si tratta di rivedere il paradigma culturale su cui poggiano credenze e aspettative che definiscono l’agire in azienda.

In un percorso di sviluppo del modello partecipativo italiano, attraverso la formazione le parti datoriali e sindacali devono insistere maggiormente nello sviluppare tra i lavoratori conoscenze tecniche, organizzative e relazionali all’altezza dell’obiettivo da raggiungere: implementare aziende vincenti. In pratica si tratta di acquisire mentalità imprenditoriali e sindacali che riconoscano le potenzialità di ogni risorsa umana presente in azienda, stimolandone responsabilità e competenza.

In questo modo il lavoro si “anima”: genera alleanze tra parti datoriali e sindacali, che concordano nella valorizzazione del capitale umano per realizzare la partecipazione dei lavoratori nei processi produttivi. Così facendosi migliora anche il senso di appartenenza all’azienda dei lavoratori, a tutti i livelli.

Evitiamo dunque di accentuare “quel tipo di razionalità perniciosa, che prevede sia razionale solo e unicamente raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi” che Umberto Galimberti definisce come “l’egemonia della tecnica”. I lavoratori non sono macchine. Sono persone e come tali portatori di conoscenze, sentimenti ed emozioni che devono trovare costruttivo spazio in ambito lavorativo, pena la “morte dell’anima”, e di conseguenza dell’affezione al lavoro, con ciò che di negativo comporta in termini di soddisfazione personale e produttività aziendale.

Le imprese sono costituite da dirigenti, quadri, tecnici, impiegati, operai, che stanno meglio sul lavoro se condividono le conoscenze e in azienda viene valorizzato il proprio contributo per migliorare gli aspetti produttivi attraverso buone relazioni interpersonali e procedure condivise. Inoltre l’ascolto reciproco, la negoziazione di buone prassi devono diventare pratica quotidiana. È necessario superare il concetto che il lavoratore sia un contenitore vuoto da riempire di nozioni e istruzioni circa i comportamenti da adottare . In questa ottica compito di un buon manager, come di un buon sindacalista, è alimentare un clima di fiducia reciproca tra lavoratori di ogni ordine e grado, basato su comportamenti positivi, coerenti e trasparenti , così che ognuno si senta anche “umanamente parte” dell’azienda. Questo ‘approccio umanistico’ necessita di una formazione che allarghi il campo oltre gli aspetti tecnici, per toccare ambiti interpersonali e organizzativi.

In questo modo tutte le persone si sentono importanti perché messe al centro del sistema azienda. Quanto sopra esposto potrebbe essere una pista per implementare relazioni industriali costruttive e contribuire a definire un “Modello Italiano”, che a mio parere potrebbe prendere spunto da quello tedesco, evidentemente rimodellato sulle nostre specifiche esigenze culturali.

Come valuta l’attuale livello italiano in ottica comparata rispetto ai sistemi esteri quali i paesi dell’area renano-scandinava e quali direttrici strategiche considera prioritarie?

In Germania la legge sulla partecipazione è attiva da quarantanni e ha permesso grandi passi in avanti nel sistema di relazioni industriali, con grande beneficio per tutti gli attori coinvolti. Essere parte di un Consiglio di Sorveglianza ti permette di sapere per tempo gli orientamenti dell’azionista di maggioranza e così condividere e partecipare alla definizione delle politiche aziendali. Il dipendente tedesco, attraverso il controllo e la partecipazione, è informato sull’andamento dell’impresa. ed è al corrente di quello che potrà accadere essendo a conoscenza di determinate scelte aziendali, ben prima che effettivamente siano messe in atto. Così facendo non esistono “scelte cadute dall’alto” per i lavoratori e allo stesso tempo è salvaguardata la necessaria fiducia nella leadership aziendale.

Il modello renano è un ottimo esempio, tuttavia va calibrato sulla dimensione italiana. Noi non abbiamo un impianto industriale come quello tedesco, caratterizzato da grandi gruppi. Nel loro caso la soglia dei 500 addetti per l’applicazione della Mitbestimmung può andar bene. Le nostre “misure” sono più strette e il nostro sistema produttivo differente, ma questo non è un limite per lo sviluppo di quel modello anche in Italia: si tratta di apportare utili correttivi affinchè l’abito calzi a pennello.

Soluzioni e adattamenti si trovano con maggior facilità di quanto si pensi, ma bisogna crederci. E soprattutto serve un gruppo dirigente politico e di parti sociali all’altezza della sfida, che mostrino coraggio, capacità di visione e voglia di rinnovare. Il modello partecipativo non è per sua natura conflittuale, conosce in profondità i ruoli di tutti gli attori protagonisti e ne rispetta i compiti. L’altro non è l’avversario, ma colui che svolge una funzione precisa quanto necessaria per il buon funzionamento del sistema. Il Paese ha bisogno di uno stile nuovo, nel quale i cambiamenti che si chiedono agli altri, siano prima di tutto applicati nel perimetro della propria competenza. Noi parti sociali e dirigenti politici siamo l’esempio per milioni di lavoratori e il cambiamento culturale deve avere inizio, qui e ora.

Saper considerare questo aspetto come prioritario per il Paese vuol dire valorizzare il tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, e dunque coglierne la potenzialità anche in ambito di politica ecomonica. La fase attuale è particolare e molte sono le pulsioni disfattiste, per cui è difficile costruire alleanze in un quadro politico così articolato. Il Partito Democratico non ha ancora elaborato una linea precisa in merito, ma mi auguro di cuore che vorrà porvi mano al più presto e in modo concreto.

Il Movimento Cinque Stelle, ha dichiarato di volere l’esatto contrario di quanto scritto nella nostra Costituzione: propone un sistema di democrazia diretta, da esercitare nei luoghi di lavoro, magari on line, ovviamente escludendo i sindacati. In questo modo i pentastellati negano la storia del movimento dei lavoratori, che ha sempre visto nel sindacato il soggetto garante dei diritti dei lavoratori. Per Berlusconi e suoi sostenitori parla la legge da questi voluta nel 2003, a causa della quale, come già detto, i lavoratori sono stati esclusi da ogni forma partecipativa dell’impresa.

Per quanto concerne il sistema industriale italiano la crisi che ormai si protrae quasi da un decennio ha accentuato e dimostrato il limiti dell’attuale modello di gestione delle imprese: il caso Alitalia è davanti ai nostri occhi. Molti hanno guardato con poca simpatia ai lavoratori che hanno votato no alla salvezza dell’azienda. Sarebbe utile chiedersi se la nostra compagnia di bandiera era guidata dai lavoratori o dal management. Perché si fanno votare i lavoratori solo “in extremis”?

Il caso Ilva di Taranto arriva dopo Almaviva e Alitalia: un buon banco di prova per non ripetere gli stessi errori. A Taranto e non solo, in tutti questi anni lavoratori e cittadini hanno pianto i loro cari per danni provacati dall’inquinamento industriale. Chi sta governando questa delicata partita ha il dovere di riconoscere i lavoratori come parte centrale di un progetto di trasformazione. Limitarsi a considerarli inevitabili vittime è una logica parziale e iniqua, in qunto privilegia il mero interesse economico dell’azionista a discapito di un intero territorio.

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