La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, seminario di studi italo-francese.

Giovedì 10 marzo abbiamo partecipato al seminario di studi italo-francese sul tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, organizzato dall’Associazione Lavoro e Welfare presso la sala Bruno Salvadori della Camera dei Deputati; di seguito la nostra sintesi.

Obiettivi dell’incontro offrire una panoramica europea delle esperienze partecipative, sensibilizzare il fronte politico e delle parti sociali a una riflessione causale riguardo la consapevolezza del gap partecipativo rispetto ad altri competitors europei e confrontarsi sulle direzioni strategiche contestualizzate da perseguire.

PROSPETTIVA EUROPEA E CASO FRANCESE

Presieduto da Giovanni Battafarano, segretario generale dell’Associazione, e con la traduzione di Adalberto Perulli, professore di Diritto del Lavoro presso l’Università Cà Foscari di Venezia, il confronto è partito dall’analisi comparata dello scenario economico europeo in ottica partecipativa.

Christophe Clerc, avvocato francese esperto di diritto societario e corporate governance, ha aperto i lavori con la prioritaria distinzione tra sistemi economici con partecipazione agli organi di governance aziendali, tipicamente a livello di consiglio di amministrazione (nel modello tedesco nel consiglio di sorveglianza con il potere di partecipare alla nomina degli amministratori del consiglio di gestione, potere cruciale in termini di soggetto economico), e sistemi con mera previsione di partecipazione finanziaria e/o organizzativa.

Indipendentemente dalla struttura di governance aziendale, quel che rileva in termini di incisività partecipativa è la partecipazione influente a livello di nomina di rappresentanti, diretti o sindacali a seconda dei casi, dei lavoratori nel cda.

Clerc ha evidenziato come il modello partecipativo sia maggioritario e caratteristico dell’Europa, con premesse storiche nel Primo conflitto mondiale e la Germania di Weimar, e come sistemi quali l’Italia o la Gran Bretagna costituiscano eccezioni di partecipazione debole. Approfondisce poi le radici del sistema tedesco della Mitbestimmung con le leggi del 1951, 52 e 76.

Peraltro, le soglie minime dimensionali aziendali (Danimarca dai 35 dipendenti, nei Paesi Bassi 100) non sono così alte come spesso si ascolta nel dibattito nostrano; fattore di contesto produttivo italiano spesso interpretato come ostacolo alla diffusione di pratiche partecipative incisive.

La percentuale media di rappresentanti dei lavoratori si attesta su circa un terzo dei consiglieri di amministrazione o sorveglianza. Nominati direttamente dai lavoratori in Germania e Danimarca, dalle organizzazioni sindacali in Svezia e parzialmente in Germania, dai comitati di impresa nei Paesi Bassi; caso a parte quello della Francia in cui il modello è scelto dagli azionisti.

Clerc ha infine sottolineato la necessità di riprendere il progetto di azione europeo in ambito partecipativo, già sostenuto dalla Commissione con la Società Europea e la V Direttiva, sinteticamente per diverse necessità: democrazia economica, efficacia economica, dimensione sociale.

Olivier Faverau, professore di Scienze economiche presso l’Università di Parigi, ha proseguito il confronto portando l’attenzione sull’importanza di analizzare le implicazioni socio-economiche di due differenti impostazioni di governance aziendale: il modello azionariale e il renano continentale, fondato sulla codeterminazione. La critica costruttiva al primo, incentrata sui concetti della ‘tossicità’ dei processi di esasperata finanziarizzazione, flessibilizzazione e breveterminismo, tuttora dominanti anche dopo la crisi del 2008, pone una riflessione e ridefinizione della finalità dell’impresa. Una finalità che non può esser rappresentata dall’esclusiva massimizzazione del profitto di breve, con meccanismi quali le stock option manageriali, con il rischio nel lungo periodo d’insostenibilità economica, ancor prima che sociale.

Faverau ha posto quindi in risalto le caratteristiche, empiriche e non solo teorico-ideologiche, dei sistemi partecipativi continentali, in primis quello renano, sottolineandone, oltre al forte orientamento sociale, la competitività economica attraverso la finalizzazione comune, di capitale azionario e capitale umano, verso la sostenibilità aziendale; il perseguire l’interesse aziendale, dell’azienda e non esclusivamente degli azionisti.

A livello di vantaggi microeconomici ha richiamato, a titolo esemplificativo, l’esperienza di Jean-Louis Beffa, presidente di una multinazionale francese, ma anche membro del consiglio di sorveglianza della tedesca Siemens (sistema dualistico renano); emblematico il confronto in quel fondamentale organo strategico sul tema delle delocalizzazioni produttive, trovando nella partecipazione un meccanismo di raccordo con l’interesse della più generale comunità di riferimento e sussidiariamente nazionale.

Faverau ha anche citato un’analisi sulla competitività partecipativa del sistema svedese, adattabile e performante rispetto alle sfide della competizione globale attraverso una partecipazione contestualizzata in una cultura partecipativa in ambito di relazioni industriali.

Ha infine presentato un grafico di correlazione tra i livelli di occupazione e i gradi di attitudine cooperativa tra le parti sociali, prospettando una visione sul futuro di un’Unione Europea di libera concorrenza non falsata che veda nella codeterminazione una prioritaria via strategica.

Ha esposto poi Antoine Lyon-Caen, anch’egli professore di Diritto del lavoro presso l’Università di Parigi, analizzando il passaggio dalla centralità del tema partecipativo nel dibattito degli anni Sessanta-Settanta al trionfo del modello azionariale (shareholders value) dei decenni successivi.

Il caso francese è stato analizzato da Jean Marc Germain, deputato nonché relatore della legge 504/14 giugno 2013 c.d. ‘messa in sicurezza dell’occupazione’, il quale ha descritto come la 504 abbia diffuso nel privato il meccanismo partecipativo nei cda (attraverso designazione sindacale o del comitato d’impresa – comité d’entreprise), analogamente a quanto era già in vigore nelle imprese pubbliche.

La partecipazione alla governance aziendale, ha concluso Germain, ha costituito un centrale tassello di una più ampia riforma sistemica, che ha anche potenziato l’informazione/consultazione dei lavoratori e previsto una contrattazione collettiva obbligatoria con frequenza triennale su materie individuate (tra le altre, mobilità e assunzioni con contratti atipici).

PROSPETTIVA ITALIANA

Adalberto Perulli ha delineato la visione di impresa scaturente dal quadro costituzionale, definendola molto attuale: art. 2 diritto dell’uomo nelle formazioni sociali, ivi compresa l’impresa; art. 3 partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese; art. 41 libertà di iniziativa economica non in contrasto con l’utilità sociale; art. 42 funzione sociale della proprietà privata; art. 46 governance aziendale. ‘Forse la Costituzione più sociale tra le europee’.

Ha quindi espresso la necessità di un passaggio dalla logica dell’esclusivo profitto a una logica del valore di impresa e ha analizzato causalmente la non attuazione dell’art. 46: una serie di ragioni endogene al sistema di relazioni industriali conflittuale, informale e senza doppio canale di rappresentanza; divergenze intersindacali, resistenze sul fronte imprenditoriale e scarsa attenzione del legislatore.

I principali luoghi comuni da smantellare sono:

  1. partecipazione contrapposta alla contrattazione;

  2. la codeterminazione è frutto di una visione ideologica;

  3. la partecipazione è riservata esclusivamente alle parti sociali (riserva di legge art.46);

  4. la partecipazione è una visione superata e legata al fordismo delle grandi imprese verticalmente integrate (esempio della Danimarca con soglie minime aziendali di 35 dipendenti).

Analizzando il nuovo paradigma del mercato del lavoro scaturente dal Jobs Act, Perulli ha evidenziato il bisogno di affiancare alla maggiore flessibilità e alla nuova idea di sicurezza (politiche attive e passive di sostegno), l’attuazione del disegno costituzionale in ambito partecipativo; la via negoziale è debole, solo strumentale alla contrattazione.

La partecipazione dovrebbe esser svolta da rappresentanti dei lavoratori nei cda o consigli di sorveglianza a seconda del modello di governance (tradizionale, monistico, dualistico); e non, come proposto da alcuni, da RSA/RSU, che restano agenti negoziali di contrattazione.

La normativa sulla società europea prevede società per azioni in forma monistica e dualistica, con rappresentanti dei lavoratori, rispettivamente nel consiglio di gestione o di sorveglianza, fino al 50%. E anche nel modello tradizionale, predominante in Italia, è possibile prevedere per statuto la partecipazione al cda; il legislatore, ha concluso Perulli, dovrebbe intervenire e imporre, come in Francia, un minimo numero di amministratori rappresentanti i lavoratori.

Franco Martini, segretario confederale CGIL, ha continuato il dibattito esprimendo la necessità non solo di leggi, ma di una contestuale cultura partecipativa delle parti sociali per far vivere le norme e non renderle scatole vuote.

Concentrandosi sull’oggi, Martini ha definito la proposta unitaria CGIL-CISL-UIL di riforma delle relazioni industriali come il superamento “sindacale” di un tabù.

Pierangelo Albini, direttore Area Lavoro e Welfare di Confindustria, è partito dalla constatazione dell’esistenza di una via italiana alla partecipazione e ha proposto una riflessione sul se mantenere/cambiare via con una valutazione sistemica del contesto italiano; ha evidenziato in particolare la necessità di pensare a una partecipazione non svincolata dalla condivisione del rischio imprenditoriale, tendenzialmente in aumento anche per la futura digitalizzazione manifatturiera, e di riflettere sulla esistenza o meno delle condizioni contestuali per forzare la mano legislativamente.

Carlo Dell’Aringa, economista, parlamentare, già sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha constatato come, se si volesse definire la codeterminazione un “sogno”, sia stato già coltivato a livello legislativo con diversi disegni di legge sulla partecipazione strategica (codeterminazione) negli organi aziendali; anche a conclusione della precedente legislatura il Testo Unico sulla partecipazione strategica è stato frutto della convergenza tra diverse forze politiche.

Tuttavia quel “sogno” non ha mai trovato concretizzazione non per carenza legislativa, ma per l’impossibilità di “forzare la mano” alle parti sociali; il sistema italiano è da decenni incentrato sul modello della contrattazione, non su quello della cogestione organizzativa nè tantomeno sulla codeterminazione strategica, modelli che, al contrario, si presentano unitamente in Germania, facendo sinergia.

In Italia ci sono tentativi di inserire, non per legge ma con incentivi fiscali, forme di cogestione e già in molte imprese si osservano iniziative manageriali di coinvolgimento dei lavoratori in gruppi di progettazione, di ascolto e miglioramento organizzativo (Fiat, Luxottica).

A livello di strategie, Dell’Aringa ha individuato la priorità di portare la contrattazione, “meno aspra, meno conflittuale”, sul luogo di lavoro, e poi tentare anche forme di coinvolgimento diretto dei lavoratori nelle tematiche aziendali, senza escludere che, in questo percorso, si possa arrivare a una situazione simile a quella francese, con una legge per mettere insieme i vari pezzi e orientarli a forme di cooperazione più spinta.

Mimmo Carrieri, professore di Sociologia economica e del lavoro presso l’Università Sapienza di Roma, ha fornito la sua interpretazione dell’esperienza francese come un esempio in cui la politica ha preso l’iniziativa senza una pressione delle parti sociali, con un sindacato debole analogamente al contesto italiano.

In Italia i “passi in avanti” verso la partecipazione sono indicati dai casi aziendali di successo. Una partecipazione, storicamente nata come controllo operaio in una chiave difensiva e oggi non attualizzabile, da interpretare come condivisione: ‘obbligo per le parti di provare a fare insieme progetti di innovazione organizzativa che migliorino produttività delle imprese e qualità del lavoro’. Una sfida con potenziali vantaggi per entrambi le parti.

La direzione che indica Carrieri è orientata da un “buonsenso pragmatico”: il governo ha già inserito norme che incentivano meccanismi partecipativi, bisognerebbe continuare con un’ottica induttiva, aggiustamenti e sperimentazioni, incentivare esperienze di partecipazione organizzativa, ma anche organi duali di governance. Una strada della sperimentazione pratica e della diffusione, quindi, immaginando come coinvolgere le piccole imprese e diffondere esperienze di successo. Infine una successiva legge come prodotto del processo sociale di coinvolgimento degli attori.

COMMISSIONE LAVORO

Cesare Damiano, Presidente della Commissione Lavoro della Camera dei deputati, parte dall’art. 41 della Costituzione: l’iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

Damiano ha innanzitutto ricordato il differente contesto culturale delle esperienze degli anni Settanta, con lo sviluppo della logica del conflitto e della contrattazione, quando la partecipazione veniva vista come un espediente per addormentare proprio il conflitto e la contrattazione. Nel rinnovo del contratto dei metalmeccanici del ’76 i diritti di informazione sulle scelte strategiche di impresa furono un risultato del conflitto, avulso da qualsiasi elemento di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa.

Passando ad analizzare la differente situazione contestuale attuale, Damiano ritiene il consenso delle parti sociali importante per poter poi compiere un passo simile a quello francese.

A livello sindacale ha comunque individuato due novità importanti nell’ultimo documento unitario:

  1. CGIL è disponibile a parlare di partecipazione economica (azionariato dei lavoratori);

  2. CISL è favorevole, in taluni casi, a una legislazione di sostegno.

Damiano propende per una strada legislativa di “forzatura temperata” della partecipazione, non di imposizione tout-court, con il forte coinvolgimento delle parti sociali.

E’ inoltre necessario fare i conti con la crescente digitalizzazione del processo produttivo manifatturiero, quando scompare il luogo fisico in cui si presta la propria attività e la remunerazione è in funzione dell’oggetto dell’attività medesima.

Ha concluso richiamando l’attenzione su due temi-chiave:

  1. Globalizzazione dell’economia: la modesta presenza di rappresentanti lavoratori (1/2 su 12) nei cda può portare il punto di vista del lavoro, ad esempio, sulla distinzione tra internazionalizzazione e delocalizzazione.

  2. Contrattazione meno aspra: la stessa modesta presenza di rappresentanti dei lavoratori nei cda potrebbe aiutare in tal senso, offrendo una cornice di garanzia circa le scelte strategiche e potrebbe esser funzionale alla ricostruzione dell’idea di comunità aziendale, oggi smarrita e necessaria, soprattutto in ottica della futura ulteriore segmentazione dell’attività produttiva.

GOVERNO

Pier Paolo Baretta, Sottosegretario all’Economia, ha iniziato il suo intervento rilevando un contesto europeo e di spazio legislativo italiano per fare partecipazione; contesto arricchito dai recenti provvedimenti individuati nella legge Stabilità in ambito di welfare aziendale, che determina una sorta di spostamento del baricentro verso l’esigenza di affrontare più rapidamente il tema, nel decreto sulla produttività e nel comma sull’azionariato dello scorso anno.

E’ il momento che il sogno diventi realtà, non più solo per ragioni accademiche, ma anche di contesto favorevole, individuando, oltre alla volontà politica, almeno due ragioni:

  1. è in atto una forte crisi della rappresentanza e, in generale, del modello di relazioni industriali, che Baretta definisce “a metà del guado”: non più antagonismo ma neanche partecipazione.

  2. La nuova organizzazione del lavoro alza il livello di corresponsabilità dei lavoratori, indipendentemente dalla missione, li coinvolge in una sorta di partecipazione alla missione aziendale.

Individua nel modello duale un buon sistema di governance che potrebbe aiutare non soltanto la partecipazione dei lavoratori, ma la stessa gestione di impresa e gli altri stakeholders.

Pur essendo stato dubbioso sull’obbligatorietà, sottolinea come il tempo passa e la non obbligatorietà si sia spesso tradotta in un alibi. Anche escludendo oggi l’obbligatorietà formale alla tedesca, in un contesto non pronto, traccia la via verso forme incentivanti in maniera stringente.

Esiste, infine, il bisogno di una scelta culturale e politica da parte dei gruppi dirigenti verso l’adozione di un sistema partecipativo fondamentale per il modello di crescita del nostro paese.

L’intervento conclusivo è stato di Tommaso Nannicini, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il quale non interpreta il modello contrattualistico in antitesi con il partecipativo; indipendentemente dal modello o dal “mix” prescelto, è necessario uno sforzo di cooperazione per minimizzare, nell’ambito dell’aggiustamento strutturale richiesto al nostro sistema economico, i costi degli spostamenti intersettoriali dei fattori capitale e lavoro verso i settori più produttivi.

Analizzando l’esperienza francese, Nannicini ha evidenziato come si arrivi a una legge solo dopo un precedente percorso fatto di strumenti di partecipazione organizzativa, di consigli di impresa e di un accordo firmato dalle parti sociali in virtù di regole certe di rappresentanza.

La Legge di Stabilità ha valorizzato gli strumenti di coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro; incentivazione e sperimentazione sono le parole-chiave.

Maggiore partecipazione implica maggiore compartecipazione al rischio di impresa, e viceversa una crescita di competenze che riguarda sia il fronte sindacale che quello datoriale.

I due modelli, contrattazione e partecipazione, ha concluso Nannicini, possono coesistere a condizione che non siano oggetto di dispute ideologiche; e in Italia è fondamentale rafforzare il processo di sperimentazione e diffusione delle “buone pratiche” in entrambi gli ambiti.

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