Marco Boleo – Perchè favorire la partecipazione ?

Qualche giorno fa su Avvenire è apparso un interessante articolo a firma Seghezzi-Tiraboschi che ci sentiamo di condividere nello spirito e nella sostanza. Governo, imprese e sindacati hanno di fronte a loro una sfida che debbono raccogliere “per costruire un equilibrio tra le esigenze della singola impresa e dei suoi lavoratori”.

Finora la contrapposizione tra sindacato ed impresa ha provocato una invasione di campo da parte dello Stato che sta forzando la mano con degli interventi legislativi con una sorta di “sussidiarietà regolata” dall’alto. Il rischio è quello del venir meno delle logiche della rappresentanza. Va trovato un equilibrio tra le richieste delle imprese e quelle dei sindacati.

Un punto di partenza potrebbe essere quello del riconoscimento da parte delle imprese che l’unica via di uscita potrebbe essere il modello della partecipazione dei lavoratori alle sorti dell’impresa. Vediamo come questo potrebbe avvenire. Tra i modelli della partecipazione, venuto meno negli anni quello antagonista, restano praticabili quello collaborativo e quello integrativo. La partecipazione collaborativa comprende le proposte e le esperienze che prevedono la possibilità di miglioramento della posizione socioeconomica dei lavoratori, senza modificare l’assetto istituzionale del capitalismo e la ragione sociale dell’impresa. Nel modello collaborativo rientrano le seguenti direzioni: a) la partecipazione politica che si realizza attraverso gli accordi, le pratiche di concertazione e le sue espressioni che sono ravvisabili nello scambio politico pluralistico; b) la partecipazione dei sindacati nelle istituzioni pubbliche, che riguardano problemi e politiche economico-sociali, interessi dei lavoratori, condizioni socio-professionali degli stessi (previdenza, formazione, mercato del lavoro); c) la partecipazione che ha come obiettivo quello di favorire la formazione del risparmio dei lavoratori e la sua valorizzazione (partecipazione finanziaria) espressa normalmente nella forma dei fondi di previdenza; d) la partecipazione che riguarda le decisioni dell’impresa. Le sue forme sono quelle dei diritti di informazione e di consultazione, della codecisione, della codeterminazione e della cogestione. Il modello di partecipazione integrativo, invece, riguarda una serie di propositi e di pratiche che si propongono di interessare i lavoratori (non necessariamente con il tramite dei sindacati) alle sorti dell’impresa e/o di coinvolgerli nelle sue vicende e nel suo destino. Nel modello integrativo possiamo individuare due prevalenti direzioni, e cioè: a) la partecipazione economica, che si propone di interessare i lavoratori all’andamento dell’impresa facendoli partecipi dei risultati conseguiti, principalmente attraverso forme di profit sharing, [ossia una quota variabile delle retribuzioni legata alla performance economica dell’azienda sulla base di opportuni parametri scelti in precedenza] o di employee ownership (ossia facilitazioni particolari per l’acquisto di azioni della società da parte del dipendente); b) la partecipazione culturale ed organizzativa, che si fonda sul coinvolgimento dei lavoratori alle continue esigenze di adattamento che l’impresa sperimenta nel suo operare.

Considerando i diversi modelli nella situazione odierna, possiamo in sintesi affermare che: 1) il modello collaborativo, dopo notevoli risultati resta valido propriamente per la diffusione delle esigenze e delle intenzioni di collaborazione, anche se queste non sono più esclusivamente ad esso assegnabili. Inoltre le sue direzioni e le sue forme più impegnative incontrano maggiori difficoltà (come nel caso della concertazione) o non hanno prodotto nuove rilevanti esperienze (come nel caso della codeterminazione); 2) il modello integrativo nella cultura degli ambienti produttivi e nelle sue concrete applicazioni, mostra ancora la sua vitalità e la sua capacità di adattarsi, vista la possibilità di modificare i suoi presupposti iniziali, attraverso la negoziazione degli obiettivi e la presenza della mediazione sindacale.

Dopo il declino della cultura e delle ideologie antagonistiche, considerando che i rapporti di lavoro sono ampiamente regolamentati, si può ritenere che la partecipazione sia costituita dagli istituti e dalle pratiche con i quali le parti in gioco vanno oltre le disposizioni e le incompletezze delle leggi e dei contratti (collettivi e non) e ciò dichiarano esplicitamente. In questo modo le parti sociali superano la soglia dello scambio convenuto e stabilito dai meccanismi del mercato del lavoro, perché riconoscono che sussistono obiettivi comuni condivisibili, in primo luogo quello della solidità competitiva dell’impresa e quello del rispetto e della valorizzazione del lavoro. La prospettiva della partecipazione complessivamente si delinea come un intreccio, articolato e dinamico, fra efficienza ed equità; due parole ugualmente funzionali per le aspettative di entrambe le parti in gioco e per i loro stessi interessi. La prospettiva della partecipazione, di conseguenza, si può strutturare su due dimensioni: collaborazione ed integrazione. La prima riguarda, anzitutto, l’impegno e il contributo dei lavoratori dipendenti rispetto alle esigenze dell’impresa, sapendo che possono partecipare alla condivisione dei frutti e delle decisioni relative al funzionamento delle stesse. La seconda riguarda, in particolare, la necessità dell’impresa di integrare i suoi addetti nei confronti del suo status e della sua sorte, iniziando con l’attuazione di politiche di valorizzazione umana e professionale dei medesimi.

Perché favorire la partecipazione? Le ragioni principali sono due e facilmente intuibili: a) la partecipazione è un fenomeno, specie in Italia, ancora poco diffuso e piuttosto saltuario rispetto alle sue potenzialità; b) queste potenzialità vanno attivate e realizzate per la reciproca convenienza delle parti in gioco e, nei loro effetti, per gli equilibri economico-sociali più generali. La Dottrina Sociale della Chiesa, come hanno ricordato anche Seghezzi e Tiraboschi ritiene la partecipazione un meccanismo di democrazia economica che “bene si sposa con i nuovi modi di produrre e lavorare che mettono al centro del processo produttivo la persona e le sue conseguenze”.

(www.eupop.it, 13.10.2015)

 

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