Marco Valerio Lo Prete – Lavoratori e cogestione, i pregiudizi da superare

Secondo la teoria dei giochi, vuol dire che la vincita di un giocatore è sempre pari alla perdita dell’altro giocatore. In base a questo principio, ogni forma di guadagno di un lavoratore (stipendio più alto, condizioni lavorative più vantaggiose, ecc.) comporterà un danno per l’imprenditore (minore fatturato, minore competitività, ecc.), e viceversa.

Pur non mancando situazioni di conflittualità che seguono uno schema simile, ricorrere al «gioco a somma zero» per descrivere le relazioni industriali contemporanee equivale a tratteggiare una caricatura distante dalla realtà. Nella vita di tutti i giorni, infatti, l’imprenditore non può fare a meno dei suoi dipendenti e collaboratori per raggiungere i propri obiettivi, a partire da quelli di profitto; i lavoratori da parte loro hanno bisogno degli investimenti e della visione strategica dell’imprenditore per mettere a frutto le proprie competenze e capacità.

Pur non avendo interessi sovrapponibili, non si può dunque escludere che nella maggior parte dei casi il datore di lavoro e il lavoratore abbiano da guadagnare dal perseguimento dell’«interesse generale» della propria impresa, pubblica o privata.

È da una simile consapevolezza che sembra prendere le mosse la proposta di legge di iniziativa popolare presentata dalla Cisl per diffondere nel nostro Paese una «governance d’impresa partecipata dai lavoratori». Secondo il sindacato guidato da Luigi Sbarra, in questo modo si darebbe peraltro applicazione a uno degli obiettivi della Costituzione che all’articolo 46 recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». «Armonia» e «diritto a collaborare» sarebbero banditi se le relazioni industriali fossero un gioco a somma zero.

Dalle Poste a Inwit, passando per Piaggio e Luxottica, per citare alcuni esempi, già oggi in Italia non mancano i casi di imprese che prevedono una qualche forma istituzionalizzata di protagonismo dei dipendenti.

La proposta cislina punta a sistematizzare e incentivare l’introduzione – via contratto – di forme di partecipazione come quella «consultiva» che avviene attraverso l’espressione di pareri e proposte nel merito delle decisioni che l’impresa intende assumere, o quella «organizzativa», o forme ancora più ambiziose come la partecipazione «gestionale», con la collaborazione dei lavoratori alle scelte strategiche dell’impresa, o quella «economico-finanziaria», cioè la partecipazione dei lavoratori ai profitti e ai risultati dell’impresa.

Per realizzare questo progetto, occorrerà superare due pregiudizi radicati. Il primo è quello di un’ampia componente del sindacato, secondo cui dietro ogni forma di cooperazione tra rappresentanti dei lavoratori e impresa si cela un compromesso nel senso deteriore del termine. Una visione antagonistica delle relazioni industriali è nemica giurata, infatti, di ogni condivisione di obiettivi tra imprenditori e lavoratori. Il secondo pregiudizio è quello nutrito da una parte degli industriali, per i quali ogni forma di partecipazione dei lavoratori alla governance aziendale costituisce un’intromissione pericolosa nel diritto di proprietà o nella libertà d’impresa. A quest’ultima obiezione si potrebbe rispondere indicando il caso della Germania, patria della cogestione (o «Mitbestimmung») introdotta per legge nel 1976 per ogni azienda con almeno 2.000 dipendenti, economia tra le più competitive a livello mondiale e con uno dei tassi di disoccupazione più bassi in Europa.

(L’Eco di Bergamo)

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