Mario Sassi – Per un “capitalismo dei partecipanti”

Severino Salvemini sul Corriere ha rilanciato un dibattito importante. Il suo assunto di partenza è chiarissimo:” ..bisogna dare vita ad una nuova dinamica di governo aziendale dove i diversi portatori di interesse possano far sentire di più la propria voce”. E così il tema che fa riferimento alla partecipazione o, in altri termini, alla collaborazione, al coinvolgimento dei collaboratori, ritorna in primo piano.

Il “campo da gioco” è l’impresa di domani. Il clima interno, i processi di condivisione del rischio e delle opportunità dell’impresa, i soggetti da coinvolgere, le modalità e i limiti del coinvolgimento segneranno la qualità del lavoro e del nuovo ruolo che le rappresentanze sindacali potranno avere dentro e fuori le aziende. Per questo occorre saper guardare avanti. Oggi più che mai. La proposta di Cgil, Cisl e Uil, la stessa proposta di Federmeccanica, pur muovendo da presupposti ben diversi, secondo me, potrebbero convergere in quella direzione. E questo sarebbe indubbiamente il vero fatto “nuovo”. Anche un’eventuale legge sulla rappresentanza dovrebbe puntare a favorire questa direzione di marcia. C’è un grande bisogno di condivisione nel nostro Paese. L’esperienza della crisi, che sembra non finire mai, ha fatto implodere i sistemi di relazione ereditati dal passato: in un capitalismo iper-frazionato come il nostro, tutto si è sfilacciato anche attraverso il (poco responsabile) gioco del cerino.
Se ciascuno cerca di passare agli altri il cerino acceso che ha in mano, sperando che a scottarsi siano loro, è facile capire come le relazioni tra committenti e fornitori, banche e imprese, lavoratori e imprenditori, territori e sistemi produttivi in essi insediati si siano logorate e non reggano ormai più alla pressione degli eventi.
Molti anelli della catena produttiva stanno saltando o sono sempre più paralizzati e privi di capacità di risposta. E questo mette in seria di difficoltà anche le strutture della rappresentanza in generale, a cui oggi si pone una opportunità fondamentale quella di contribuire ad arrestare la disgregazione delle filiere produttive, delle relazioni sociali e dei sistemi territoriali, usando la loro capacità di generare senso e legami per invertire l’andamento delle cose, proponendo una logica di collaborazione tra le parti, sia nell’affrontare la crisi giorno per giorno, ma anche nel costruire un futuro comune che possa riattivare il meccanismo dello sviluppo, oggi gravemente inceppato.
Inoltre, occorre considerare che gli strumenti da mettere in campo per affrontare la pressione competitiva dei mercati sono anche altri, e riguardano le parti sociali direttamente coinvolte: bisogna condividere i rischi, le perdite ma anche le opportunità, trovando un criterio ragionevole per ridimensionare certe attività distribuendo i sacrifici tra le molte parti co-interessate alla sopravvivenza di una certa impresa o di una certa fascia di attività.
E’ un processo difficile, in cui la contrattazione sociale può forse fornire la cornice normativa e logica: ma tocca alle singole persone, alle singole imprese, alle singole banche, ai singoli territori dire in che modo possono contribuire alla sopravvivenza ed eventualmente – in prospettiva – al rilancio di attività che non vogliono vedere chiudere o fuggire altrove. La contrattazione aziendale ha già in molti casi trovato formule ragionevoli di distribuzione dei sacrifici che le parti in causa sono disposte ad assumere, in uno spirito di collaborazione mutualistica, di reciprocità, in vista di un interesse comune per la sopravvivenza. Bisogna fare tesoro di queste esperienze anche se il loro contenuto è spesso una rinuncia, una riduzione delle aspettative e delle pretese contrattuali, un’accettazione di sacrifici che aiutano il sistema di cui si fa parte a non soccombere, di fronte alle gravi difficoltà. Ma certo, tutto questo non basta. La collaborazione solidale (redistribuzione politica e contrattuale del reddito, in nome dell’equità) e quella mutualistica (modificazione delle condizioni di lavoro e di reddito di ciascuno, in nome di un interesse comune alla sopravvivenza del sistema produttivo) servono solo ad evitare danni più gravi.
Questo nuovo modello di collaborazione necessaria da costruire insieme nasce dal fatto che, per mantenere i nostri livelli di occupazione e di reddito nel lungo termine, dobbiamo trovare il modo di aumentare di molto il valore co-prodotto dalle nostre imprese e dalle nostre filiere, in modo da compensare gli svantaggi di costo di cui soffriamo nei confronti dei concorrenti emergenti, e delle multinazionali che li utilizzano come parti delle loro filiere globali.
Questo aumento della produttività (valore prodotto per ora lavorata e per euro investito) richiede interventi correttivi importanti, rispetto alle tendenze spontanee del sistema produttivo esistente e dei modelli di business che esso ha espresso sin qui.
È necessario quindi sviluppare una vera collaborazione tra chi sviluppa progetti, investe risorse, assume rischi in vista di un traguardo comune, che riguarda – prima del singolo imprenditore-innovatore – l’impresa (con i suoi stakeholders, prima di tutto i suoi lavoratori), la filiera (con i suoi fornitori, committenti, distributori e consumatori), il territorio (con le istituzioni locali), l’economia della società nel suo insieme (espressa dalle differenti parti sociali). Ed è in questo contesto che l’accordo tra le parti sociali diventa un tassello auspicabile e fondamentale.

(www.mariosassi.it, 15.01.2016)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *