Onofrio Rota – Il comparto agroalimentare e le sfide della democrazia economica

L’impatto della crisi sanitaria è stato ed è tuttora drammatico. Si tratta di uno stravolgimento delle nostre vite che ha inevitabilmente stimolato tante riflessioni anche sui processi produttivi, partecipativi e organizzativi, in parte accelerando alcuni cambiamenti già in corso da diversi anni. Le parti sociali sono state chiamate a gestire l’emergenza e ad abbracciare la sfida della ripartenza.

Da questo punto di vista, già il protocollo sulle misure anticovid siglato con il Governo aveva rappresentato un segnale fondamentale, poi i diversi tavoli di confronto e l’accordo sulle vaccinazioni in azienda hanno dato ulteriore prova di un rinnovato protagonismo del sindacato, per non parlare delle tante iniziative di solidarietà messe in campo dentro e fuori le fabbriche sia a livello confederale che dalle singole federazioni.

In poco più di un anno alcune trasformazioni si sono imposte con velocità. Basta pensare all’impennata dello smartworking e della formazione a distanza, oppure al venir meno di diverse forme di partecipazione in presenza, come le assemblee nei luoghi di lavoro o le grandi manifestazioni in piazza. Una sfida non facile, per il sindacato, che deve spingersi a interpretare le trasformazioni in corso e a governare quelle future facendo leva su vari aspetti della partecipazione e della rappresentanza. In questo quadro, anche il tema della democrazia economica è riemerso come strategico per far evolvere il nostro modello economico e sociale di sviluppo verso una maggiore centralità della persona e un ruolo più rilevante delle lavoratrici e dei lavoratori. Concetti e valori storicamente cari in particolar modo alla Cisl, che non ha mai smesso di sottolineare come la partecipazione sia la strada giusta per migliorare la qualità delle produzioni, esaltare la produttività, tutelare in modo efficace le retribuzioni e i salari. Una tema da affrontare senza pregiudizi, guardando anche ai modelli e alle esperienze maturate da anni in diversi Paesi, nella consapevolezza che già i nostri padri costituenti avevano saggiamente previsto, con l’articolo 46 della Costituzione, che la collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende fosse parte di obiettivi nobili e irrinunciabili come “l’elevazione economica e sociale del lavoro”.

Se da un lato la democrazia economica viene spesso identificata con il modello della “cogestione” tedesca (Mitbestimmung), che ha permesso già dagli anni ’60 ai lavoratori di eleggere i propri rappresentanti nei board delle maggiori imprese private e pubbliche, influendo così nelle scelte sia gestionali che strategiche, non meno importante è il modello americano, in cui è maturata la pratica di una partecipazione finanziaria dei lavoratori al capitale e all’utile dell’impresa, ma senza alcun potere e alcuna rappresentanza effettiva nei board. L’Italia sconta indubbiamente da parte sua la mancanza di una legge specifica di sostegno alla partecipazione dei lavoratori, ma anche, cosa ben più rilevante, un’arretratezza culturale figlia di una certa viscosità ideologica. Ma non mancano le buone pratiche maturate nel tempo con alcune realtà produttive più aperte alla sperimentazione e all’innovazione, né casi di recupero, da parte dei lavoratori, di imprese in crisi e spesso destinate a chiudere, portando alla nascita di forme cooperative che hanno salvaguardato migliaia di posti di lavoro.

I diversi livelli di partecipazione realizzati nel tempo si differenziano in almeno tre tipologie: strategica, organizzativa, economico finanziaria. La prima è una forma indiretta, in cui si condividono le scelte strategiche e gestionali con i rappresentanti eletti dai lavoratori. La seconda, diretta, prevede il coinvolgimento nella gestione operativa manageriale, come ad esempio un team di lavoro sull’innovazione, oppure commissioni congiunte di fabbrica. La terza, sempre diretta, realizza il coinvolgimento nell’organizzazione del lavoro, ad esempio tramite gruppi di miglioramento del benessere aziendale o dei processi produttivi. La partecipazione diretta può essere “debole”, se avviene con modalità e ambiti decisi unilateralmente dall’azienda, o “forte”, se le modalità e gli ambiti sono concordati e formalmente definiti, con la possibilità di influenzare in modo visibile le decisioni dell’impresa, ad esempio con tanto di team di lavoro formalizzati, suggerimenti strutturati, gruppi di miglioramento, smartworking strutturato, commissioni congiunte definite con accordi sindacali.

Nell’agroalimentare, comparto sempre più trainante dell’intera economia italiana, persino durante la pandemia, seppur con diverse contraddizioni, come Fai Cisl abbiamo coltivato nei limiti del possibile questi diversi livelli di partecipazione su più fronti. Ad esempio, governando con la massima attenzione la collaborazione tra le rsu e le aziende per mettere in sicurezza le fabbriche e gli ambienti di lavoro. Compito non facile e non scontato, a volte spinoso, che però ci ha permesso sia di tutelare le lavoratrici e i lavoratori, ottenendo che nessun focolaio virale potesse nascere sul luogo di lavoro, che di garantire la continuità produttiva e dunque il cibo sulle tavole degli italiani. Oppure, come nel caso degli impiegati, gestendo la diffusione dello smartworking come una straordinaria opportunità di partecipazione diretta di gestione dei tempi e dei luoghi di lavoro. Non solo, ma nello stesso rinnovo del contratto collettivo nazionale dell’industria alimentare, siglato a luglio 2020, abbiamo ottenuto un esplicito impegno delle parti, attraverso l’estensione della contrattazione di secondo livello, a sostenere tutti quei processi produttivi e tecnologici che stanno interessando il nostro sistema industriale e manifatturiero richiedendo più coinvolgimento e partecipazione, e determinando una diversa relazione tra impresa e lavoratrici e lavoratori.

Un’esperienza molto significativa, anche se ancora allo stato embrionale, è invece quella per cui ci siamo fortemente battuti nel gruppo Campari, nota multinazionale che conta 22 impianti produttivi e impiega complessivamente circa 4.000 persone, presente in Italia con la sede centrale di Sesto San Giovanni e i 4 stabilimenti di Canale, Novi Ligure, Alghero e Caltanissetta. Il gruppo, fondato in Italia nel 1860 e divenuto negli ultimi 15 anni il sesto player mondiale per importanza nell’industria degli Spirit di marca, ha scelto di offrire a tutti i dipendenti un pacchetto di azioni e la possibilità di destinare parte del proprio stipendio all’acquisto di azioni ordinarie. Un elemento che avevamo proposto e voluto con determinazione in occasione dell’ultimo accordo integrativo, contenente anche un capitolo sull’azionariato diffuso. Il cda del gruppo ha approvato un apposito documento informativo, da sottoporre all’assemblea degli azionisti, che introduce un piano di partecipazione azionaria volto a premiare i dipendenti a livello globale. Il piano prevede che ai dipendenti venga offerta la possibilità di destinare determinati importi che saranno dedotti mensilmente dal proprio stipendio, attraverso un contributo del 1%, 3% o 5% dello stipendio lordo annuo, per l’acquisto di azioni ordinarie. Sempre nell’ambito del piano, viene introdotto un bonus che prevede il diritto gratuito per i dipendenti del gruppo di ricevere un numero di azioni, subordinatamente al mantenimento del rapporto di lavoro con Campari Group per un vesting period di tre anni. Ora la palla passerà a una commissione interna all’azienda, che dovrà gestire concretamente il progetto. A settembre probabilmente partirà una campagna informativa per tutti i lavoratori, e da gennaio 2022 sarà attivato concretamente il percorso previsto dal piano. Credo si tratti di un bel primo passo in avanti, una misura che realizza un pezzo importante di welfare aziendale innovativo e lungimirante, nell’ottica di una sempre maggiore partecipazione dei lavoratori, anche economico-finanziaria, alla vita delle imprese. Una conquista ottenuta grazie anche all’ottimo lavoro svolto dalle Rsu. Come Fai Cisl crediamo fermamente che anche questo sia un modello da perseguire, in tanti settori, per contribuire alla crescita del Paese facendo leva su principi fondamentali di partecipazione, responsabilità e, appunto, democrazia economica.

La sensibilità verso una maggiore partecipazione dei lavoratori va coltivata senz’altro anche nel settore agricolo, dove ad esempio è già marcato l’impegno dell’Enpaia, Ente Nazionale di Previdenza per gli Addetti e per gli Impiegati in Agricoltura, a orientare gli investimenti del proprio patrimonio, un capitale di oltre due miliardi di euro, di cui circa metà costituito da investimenti immobiliari, verso fondi alternativi a sostegno delle imprese italiane. Una scelta che negli ultimi anni ha condotto l’ente a garantire al contempo sia le prestazioni ai propri associati che rendimenti e finanziamenti di progetti di sviluppo del comparto agricolo. Non meno importanti sono quei fondi che scelgono di avere un occhio di riguardo nel reinvestire su specifici asset. Il Fondo Solidarietà Veneto, ad esempio, pur mantenendo criteri di differenziazione degli investimenti, ha concentrato il proprio impegno nel finanziamento di piccole e medie imprese italiane seguendo determinate regole di ingaggio, come quelle che prevedono di sostenere i progetti che fanno leva su sostenibilità ambientale e transizione ecologica. Sono anche queste buone pratiche per perseguire principi di allargamento del protagonismo dei lavoratori dentro trasformazioni che vanno governate in nome dell’equità e della giustizia sociale.

Indubbiamente, al di là dei singoli buoni casi, la strada da fare è ancora lunga. Dobbiamo probabilmente toglierci di dosso un certo culto della gerarchia ancora troppo radicato nel management delle nostre imprese. E dobbiamo fare i conti con una cultura dei lavoratori ancora in parte diffidente verso la gestione dell’impresa e plasmata su un impianto conflittuale delle relazioni industriali. Serve poi anche un lavoro urgente per valorizzare la nostra bilateralità e i nostri fondi di investimento, ancora troppo sbilanciati a sfavore dell’economia reale e della ricchezza da reimmettere nel Paese. I tempi sono maturi, però, perché il sindacato nuovo si faccia carico di questa sfida, ad esempio promuovendo l’elezione di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione e perseguendo un sistema finanziario in cui i fondi azionari collettivi dei lavoratori e la previdenza integrativa possano intervenire nel capitale d’impresa, per vigilare e indirizzare le scelte che contano. Il percorso da seguire è questo, anche per dare gambe allo stesso Patto della fabbrica tra Confindustria e Cgil, Cisl, Uil, che nel 2018 ha fissato le condizioni per realizzare un sistema di relazioni industriali più efficace e, appunto, partecipativo, nonché per rafforzare l’autonomia del sociale e dei corpi intermedi rispetto alle non rare gambe tese intervenute più volte da parte della politica. Sindacati, imprese e istituzioni possono e devono farcela, nella convinzione che con più voce in capitolo nell’indirizzo, nel controllo, nella partecipazione, i lavoratori potranno rendersi veramente protagonisti anche di una migliore e maggiore produttività. Un pezzo fondamentale, anche questo, di quel nuovo modello economico e sociale che dobbiamo promuovere per uscire dalla crisi: un modello dal volto più umano, solidale e ancorato all’economia reale.

Onofrio Rota, Segretario Generale Fai Cisl

(Riformismo e Solidarietà)

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