Eugenio Caruso – La storia di Adriano Olivetti

Nacque sulla collina di Monte Navale, nelle vicinanze di Ivrea l’11 aprile del 1901, da Camillo, ebreo, e Luisa Revel, valdese. Non ricevette alcuna educazione religiosa (anche se era riuscito a procurarsi un certificato di battesimo valdese per sfuggire alle leggi razziali fasciste del 1938); solo nella maturità, in vista del secondo matrimonio, si convertì al cattolicesimo.


Nel 1924 conseguì la laurea in ingegneria chimica al Politecnico di Torino e, dopo un soggiorno di studio negli Stati Uniti insieme a Domenico Burzio (Direttore Tecnico della Olivetti), durante il quale poté aggiornarsi sulle pratiche di organizzazione aziendale, entrò nel 1926 nella fabbrica paterna ove, per volere di Camillo, fece le prime esperienze come operaio. Divenne direttore della Società Olivetti nel 1932, anno in cui lanciò la prima macchina da scrivere portatile chiamata MP1, e presidente nel 1938.
Negli anni seguenti approfondì le tematiche industriali, studiando il Taylorismo, accompagnandole anche a letture di pensatori liberali. Dalla fusione di queste influenze venne fuori una concezione assolutamente originale, nella quale l’attività d’impresa doveva assicurare non solo buoni profitti, ma anche realizzare lo sviluppo sociale, culturale e umano di chi vi lavorava, nel rispetto delle loro aspirazioni individuali. Insomma il lavorare per la Olivetti non doveva puntare solo al mero soddisfacimento dei bisogni primari del lavoratore, bensì creare le condizioni del suo benessere materiale e spirituale. Concetti troppo utopistici? Alcuni dissero così, cercando di farlo passare come un folle. Adriano Olivetti non si fece per questo scoraggiare ed i risultati che ottenne gli diedero ragione. Nonostante avesse introdotto un vero e proprio sistema di servizi sociali per gli operai (quartieri residenziali, ambulatori medici, asili nido, la mensa, la biblioteca e più avanti anche un cinema totalmente gratuiti) e avesse ridotto le ore della giornata lavorativa mantenendo invariato il salario, sia la produttività che la qualità erano aumentate. Per aumentare i profitti si faceva leva sull’organizzazione razionale del lavoro ma soprattutto sulla motivazione e sulla partecipazione dei lavoratori alla vita e al futuro dell’azienda. La fabbrica storica d’Ivrea divenne il centro di una cultura aziendale rivoluzionaria, che fondeva aspetti scientifici con altri umanistici. Da un punto di vista del successo aziendale, l’imprenditore piemontese puntò sempre all’eccellenza tecnologica, all’apertura verso i mercati internazionali e alla cura del design industriale, oltre che ad essere il primo nel campo dell’innovazione. Molti aspetti che sono comuni della realtà imprenditoriale contemporanea, come la comunicazione, la cura e lo sviluppo del brand, la pubblicità, la grafica, lo studio della sociologia e della psicologia lavorativa, vennero tutti introdotti prima degli anni sessanta nei numerosi stabilimenti che la Olivetti aprì in Italia e all’estero (Brasile e Stati Uniti). Ricordo che quando negli anni settanta iniziai a girare il mondo per lavoro il BRAND OLIVETTI campeggiava in quasi tutte le piazze delle città principali. Negli anni cinquanta molti prodotti divennero dei veri e propri oggetti di culto e di modernità. La più famosa fu la macchina da scrivere portatile “Olivetti Lettera 22”, che ricevette premi sia in Italia (Compasso d’Oro nel 1954), sia all’estero (“Miglior prodotto di design del secolo”, secondo l’Illinois Institute of Technology nel 1959).
Negli ultimi anni della sua vita si dedicò al campo dei calcolatori elettronici (i primi computer), dove superò perfino gli americani con la produzione dell’ELEA 9003, un avveniristico computer a transistor unico nel suo genere.
Adriano Olivetti ci mostra quindi uno splendido esempio delle infinite potenzialità di una visione creativa dell’attività d’impresa e dei successi che vi si possono raggiungere. Come rispose a chi gli chiedeva se il suo pensiero non fosse troppo utopico…
“Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande”.
Nella vita privata si oppose al regime fascista con momenti di militanza attiva. Partecipò con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e altri alla liberazione di Filippo Turati (lo stesso Adriano era alla guida dell’auto che lo portò fuori dal paese). Durante gli anni della Guerra riparò in Svizzera da dove si mantenne in contatto con la Resistenza. Dal 1931 la questura di Aosta (dalla quale l’imprenditore necessitava la certificazione di appartenenza alla razza ariana a causa delle origini del padre ebreo) definì il giovane Olivetti come sovversivo. Rientrato dal suo rifugio alla caduta del regime, riprese le redini dell’azienda. Alle sue capacità manageriali, che portarono la Olivetti a essere la prima azienda del mondo nel settore dei prodotti per ufficio, unì un’instancabile sete di ricerca e di sperimentazione.
Sotto l’impulso delle fortune aziendali e dei suoi ideali comunitari, Ivrea negli anni cinquanta raggruppò una quantità straordinaria di intellettuali che operavano (chi in azienda chi all’interno del Movimento Comunità) in differenti campi disciplinari, inseguendo il progetto di una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica. Alla fine del 1945 pubblicò il suo libro “L’ordine politico delle comunità” nel quale sono espresse quelle idee che supporteranno il Movimento Comunità fondato a Torino nel 1948. Nello stesso anno entrò a far parte del Consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, cui aveva aderito dieci anni prima. Nel 1937 aveva partecipato a una serie di studi su un piano regolatore della Valle d’Aosta.
Nel 1949 Olivetti si convertì al cattolicesimo «per la convinzione della sua superiore teologia». Nel 1950 espose la sua visione del primato in campo politico dell’Urbanistica e della Pianificazione. L’urbanistica fu solo una delle tante passioni di Olivetti che si interessò di storia, filosofia, letteratura e arte.
Nel 1953 decise di aprire una fabbrica di macchine calcolatrici a Pozzuoli offrendo posti di lavoro con salari sopra le medie e assistenza alle famiglie degli operai la cui produttività in questo stabilimento superò quella dei colleghi nella fabbrica di Ivrea. Nel 1956 fu eletto sindaco di Ivrea e due anni dopo ottenne un seggio in Parlamento candidandosi con il Movimento Comunità.
Nel 1957 la National Management Association di New York premiò l’attività di direzione d’azienda internazionale di Olivetti.
Al momento del suo decesso, nel 1960, l’Azienda vantava una presenza su tutti i maggiori mercati internazionali, con circa 36.000 dipendenti, di cui oltre la metà all’estero. Nel 1962 nasce la Fondazione Adriano Olivetti per volontà di familiari, amici e collaboratori, con l’intento di raccogliere e sviluppare l’impegno civile, sociale e politico che ha distinto l’operato di Adriano Olivetti nel corso della sua vita.
Adriano Olivetti ebbe un rapporto dialettico con il padre Camillo. Apparentemente visse la ribellione tipica dei figli “intelligenti” nel confronto dei padri altrettanto “intelligenti”. Si può comunque affermare che tra Adriano e Camillo Olivetti ci fu sempre identità di vedute nelle linee generali della politica.
Camillo Olivetti sappiamo, fu un cauto interventista sopravvivendo in lui lo spirito risorgimentale. Adriano, in sintonia, dopo Caporetto si arruolò volontario pur non combattendo in quanto la guerra finì prima che potesse raggiungere il fronte.
Sappiamo che collaborò con Tempi Nuovi il settimanale politico torinese che il padre promuoverà con Donato Bachi (che ne sarà il direttore) e altri progressisti. Con la svolta, prima critica, poi più marcatamente antifascista di quel giornale, ci fu anche la svolta politica di Adriano Olivetti, anche influenzato dall’ambiente culturale del Politecnico e dall’amicizia con la famiglia Levi. In particolare con Gino Levi suo compagno di corso.
Acutamente, Natalia Levi Ginzburg nel libro Lessico famigliare descrive in questi termini il rapporto tra Adriano Olivetti e la propria famiglia:
« Fra questi amici ce n’era uno che si chiamava Olivetti, e io ricordo la prima volta che entrò in casa nostra, vestito da soldato perché faceva in quel tempo il servizio militare. Adriano aveva allora la barba, una barba incolta e ricciuta, di un colore fulvo; aveva lunghi capelli biondo fulvi, che si arricciolavano sulla nuca ed era grasso e pallido. La divisa militare gli cadeva male sulle spalle, che erano grasse e tonde; e non ho mai visto una persona, in panni grigio verdi e con pistola alla cintola, più goffa e meno marziale di lui. Aveva un’aria molto malinconica, forse perché non gli piaceva niente fare il soldato; era timido e silenzioso, ma quando parlava, parlava allora a lungo e a voce bassissima, e diceva cose confuse ed oscure, fissando il vuoto con i piccoli occhi celesti, che erano insieme freddi e sognanti.»
Con la famiglia Levi, Adriano fu tra i protagonisti della rocambolesca fuga di Filippo Turati. Ospitato prima dai Levi nella loro casa di Torino, Turati raggiunse poi Ivrea. Fece tappa nella notte in casa di Giuseppe Pero, dirigente della Olivetti, per ripartire al mattino seguente in una macchina guidata da Adriano che raggiungerà Savona, dove li aspettava Sandro Pertini con cui l’esule si imbarcò per la Corsica per poi raggiungere la Francia e Parigi.
Sappiamo dagli articoli su Tempi Nuovi che la redazione, almeno fino al 1923 ebbe un rapporto di reciproca stima con il fascismo torinese di Mario Gioda, il quale sia pur scomparso nel 1924, aveva lasciato numerosi seguaci nella federazione torinese. L’antifascismo di Adriano si era già espresso immediatamente dopo il ritrovamento del cadavere di Giacomo Matteotti nella manifestazione che promosse, insieme al padre, al teatro Giacosa di Ivrea nel 1924. Maggiore prudenza Adriano Olivetti la dimostrò nei confronti del regime, parallelamente all’assunzione di responsabilità nella fabbrica di Ivrea.
Adriano Olivetti venne nominato Direttore generale, quindi sposò Paola Levi, sorella di Gino, con rito civile. Paola, insofferente al provincialismo eporediese, lo convinse a trasferire casa a Milano; questa fu una delle svolte culturali per Adriano, perché nel capoluogo meneghino poté incontrare quell’intellighenzia che lo avvicinò in seguito all’architettura, l’urbanistica, la psicologia e la sociologia. Ebbe ancora problemi con il Regime, quando il fratello di Gino e Paola Levi, Mario (che lavorava alla Olivetti), venne fermato alla frontiera con la Svizzera, essendo l’auto carica di manifestini di Giustizia e Libertà. Riuscì a fuggire, ma la conseguenza fu che Gino Levi e il padre furono arrestati, rimanendo per circa due mesi nelle patrie galere.
Adriano in quel frangente si mobilitò e molto spese del suo per difendere il suocero e l’amico cognato. È quello il periodo in cui a Camillo Olivetti fu momentaneamente ritirato il passaporto. Tuttavia i rapporti con il fascismo migliorarono negli anni trenta. Sarà soprattutto l’incontro con gli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, i quali erano la punta più avanzata di quel razionalismo in architettura che in un primo periodo venne sostenuto anche da Mussolini. I due architetti erano i corrispondenti italiani del grande Le Corbusier, il quale, pure lui, per un certo periodo fu estimatore di Mussolini in quegli anni che saranno definiti del consenso, tanto che Figini e Pollini aderirono al partito fascista.
Sicuramente Adriano da loro fu influenzato; essi saranno infatti gli architetti della nuova Olivetti e saranno anche, con Adriano, estensori del Piano per la provincia di Aosta (di cui Ivrea faceva parte in quegli anni). Non sappiamo con quanta convinzione, ma ad ogni modo è provato che Adriano Olivetti chiese ed ottenne la tessera al PNF. Non solo, ma fu ricevuto da Mussolini a Palazzo Venezia dove l’industriale eporediese presentò il suo piano al Duce.
Le sue affinità politiche del periodo furono con Giuseppe Bottai che nel fascismo sempre rappresentò una voce fuori dal coro. Prudente tanto da non farsi radiare come avvenne a Massimo Rocca, Bottai fu pur sempre uno spirito libero che rappresentò l’altra faccia del fascismo, quella meno totalitaria e folcloristica e più problematica. Queste qualità comunque non impedirono poi a Bottai di essere un convinto promulgatore del Manifesto della Razza e uno tra i più fanatici sostenitori delle leggi razziali fasciste. Quello con il Regime fu un feeling di breve durata. In architettura i gusti di Mussolini cambiarono: dal razionalismo passò a un’architettura di regime che intendeva riecheggiare i fasti della Roma Imperiale.
Nel 1945 Olivetti pubblicò L’ordine politico delle Comunità che va considerato la base teorica per un’idea federalista dello Stato che, nella sua visione, si fondava appunto sulle comunità, vale a dire unità territoriali culturalmente omogenee e economicamente autonome. Divenne un sostenitore del federalismo europeo dopo aver conosciuto Altiero Spinelli durante l’esilio in Svizzera, iniziato da Olivetti nel 1944 a causa della sua attività antifascista. Nel 1948 fondò a Torino il “Movimento Comunità” e si impegnò affinché si realizzasse il suo ideale di comunità in terra di Canavese.
Il movimento, che tentava di unire sotto un’unica bandiera l’ala socialista con quella liberale, assunse nell’Italia degli anni cinquanta una notevole importanza nel campo della cultura economica, sociale e politica. Scopo dell’iniziativa politica era creare un movimento socio-tecnocratico di una trentina di deputati in grado di costituire l’ago della bilancia fra il centro (egemonizzato dalla Democrazia Cristiana) e la sinistra (egemonizzata dal PCI). Negli anni cinquanta insieme a Guido Nadzo fu uno dei responsabili dell’Unrra-Casas, quando si cercò di operare in modo organico, in termini urbanistici; divenne promotore di uno studio sociologico sui Sassi di Matera e della successiva realizzazione del borgo La Martella. Nel 1955 durante la seconda edizione del premio Compasso d’Oro ad Adriano Olivetti viene attribuito il primo “Gran Premio Nazionale”, prestigioso riconoscimento datogli per la sua influenza nell’industria e nel design italiano. Nel 1958 Olivetti fu eletto deputato come rappresentante di “Comunità”. La sua morte prematura sancì la fine del movimento.
Adriano Olivetti riuscì a creare nel secondo dopoguerra italiano un’esperienza di fabbrica nuova ed unica al mondo in un periodo storico in cui si fronteggiavano due grandi potenze: capitalismo e comunismo. Olivetti credeva che fosse possibile creare un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto, tanto che l’organizzazione del lavoro comprendeva un’idea di felicità collettiva che generava efficienza. Gli operai vivevano in condizioni migliori rispetto alle altre grandi fabbriche italiane: ricevevano salari più alti, vi erano asili e abitazioni vicino alla fabbrica che rispettavano la bellezza dell’ambiente, i dipendenti godevano di convenzioni (…)

(www.impresaoggi.com, 04.08.2016)

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