Intervista a Francesco Carlesi e Francesco Guarente

Ci parlate di voi e dell’Istituto Stato e Partecipazione?

In primo luogo permetteteci di ringraziare Mitbestimmung. per questa intervista, che assume un valore particolare in quanto consideriamo il vostro osservatorio una risorsa a dir poco preziosa sui temi del lavoro e della partecipazione. L’Istituto “Stato e Partecipazione” nasce molto semplicemente da una chiacchierata tra me (Francesco Carlesi) e Francesco Guarente a margine della presentazione del mio volume La Terza Via Italia. Storia di un modello sociale nel 2019. Io sono docente di Storia Contemporanea e Storia delle Relazioni internazionali presso l’Università “San Domenico” di Roma, e lavoro anche nell’ambito della sicurezza aeroportuale, mentre Guarente è consulente del lavoro e sindacalista. Pur conoscendoci da pochissimo ci siamo scoperti animati dalla stessa passione e dal profondo interesse per i temi sociali e del lavoro e abbiamo così cominciato a contattare amici e studiosi per dare vita a un “contenitore” che potesse diventare fucina di dibattiti e proposte su questi argomenti.

La necessità che avvertivamo era in primis quella di rilanciare lo studio critico e la riflessione profonda in un momento storico in cui le semplificazioni dei social sembrano farla da padrone. I primi ad unirsi all’avventura sono stati Alessandro Amorese (editore della casa editrice Eclettica, eletto deputato nel 2022) e persone come Emanuele Merlino e Gian Piero Joime grazie alle quali abbiamo dato vita ufficialmente all’Istituto nel settembre 2020. Da quel momento la pubblicazione di studi, articoli e libri è stata continua. Nel dicembre dello stesso anno è uscita l’opera collettanea L’Italia del Futuro, con prefazione di Giulio Tremonti, in cui attraverso una serie di saggi affidati a professori, studiosi e sindacalisti si cercavano di tratteggiare spunti, analisi e programmi per la (ri)costruzione della Nazione nel dramma della pandemia. Dall’agricoltura all’industria, passando per la politica estera, il sindacato e le periferie, ogni aspetto vitale era toccato, seguendo il filo conduttore della necessità del recupero di ampie fette di sovranità per l’Italia, attraverso l’impostazione di politiche industriali, strategie di lunghissimo periodo e l’attuazione dell’articolo 46 della nostra Costituzione.

Le radici culturali di questo impegno affondano nella storia, con richiami che spaziano dall’economia civile di Genovesi e la “terza via” di Mazzini fino alla Dottrina Sociale della Chiesa, passando per una lunga riflessione europea che comprende il modello tedesco, le socialdemocrazie scandinave e i progetti di de Gaulle. Importanza centrale in questo filo rosso riveste la cosiddetta “destra sociale” italiana e personaggi quali Ernesto Massi, Diano Brocchi, Giano Accame e Gaetano Rasi, animatore per vent’anni dell’Istituto di Studi Corporativi (1971-1992), riferimento centrale di “Stato e Partecipazione”. Poste le premesse, le successive pubblicazioni hanno abbracciato la storia (Merlino, La sola ragione di vivere. D’Annunzio, la Carta del Carnaro e l’Esercito liberatore; Passera, Carlesi, Le radici nascoste della Costituzione e Carlesi, Mazzini, un italiano. L’apostolo della Patria e del lavoro e Id., L’Italia del Miracolo), il rilancio delle aree interne della penisola (AA. VV., Borgo Italia) e dell’agroalimentare (Joime, Righini, Tradizione Ecologica), l’Unione Europa (AA. VV., Destino Nazionale vs Vincolo Europeo), le innovazioni (M. Bozzi Sentieri, La Rivoluzione 4.0. Roma vs Davo tra lavoro e partecipazione), il concetto di Nazione (S. Pupo, Oicofobia) e ovviamente l’idea partecipativa (F. Marrara, La sfida partecipativa). Nel tempo, si è strutturato un Comitato Scientifico composto da professori ed esperti e una rivista, arrivata al quarto numero, dal titolo non casuale Partecipazione. Questa palestra culturale cercherà di coniugare la riflessione scientifica con dibattiti e proposte pratiche, in un dialogo di alto livello che punta a coinvolgere il mondo dell’accademia, della politica e dell’approfondimento senza nessun limite preconcetto. A questo proposito, l’Istituto è stato ospitato a presentare le sue riflessioni su economia, politiche sociali e temi partecipativi in contesti come la Camera, il Senato e il parlamento europeo ed ha avviato alcune proficue collaborazione con il sindacato Ugl. Ogni voce è stata e sarà accolta nella rivista con la speranza di dare linfa a un dibattito culturale di cui, nonostante la presenza di alcune realtà editoriali di alto profilo, si avverte sempre più la mancanza.

La scorsa estate ha visto l’esordio della rivista dell’Istituto e, in particolare, la pubblicazione antesignana della proposta di legge sulla partecipazione dei lavoratori all’impresa: ci descrivete il percorso che vi ha condotto all’elaborazione di un progetto che affonda le sue radici nella storia delle relazioni industriali in Italia e che, al tempo stesso, ne propone una radicale trasformazione?

La proposta, pubblicata già da più di un anno, ha visto coinvolti numerosi tecnici, sindacalisti ed esperti vicini all’Istituto, Maurizio Castro in primis. L’idea nasce proprio perché “sentiamo” come sempre più impellente la necessità di una trasformazione radicale delle relazioni industriali in Italia, per affrontare al meglio i cambiamenti tecnologici, le emergenze che si susseguono e gli enormi problemi che ancora caratterizzano il nostro tessuto sociale.
Per descriverla userò le parole dello stesso Castro chiarendo subito che il testo si discosta dai numerosi presentati negli ultimi anni perché definisce un regime “obbligatorio” di partecipazione, ponendo soltanto un doppio limite dimensionale di accesso. Si tratta di una scelta molto forte, culturalmente prima ancora che gestionalmente. Eppure, non è una scelta “ideologica”, adottata cioè per marcare il campo, per affermare la distintività di un’appartenenza politica e quasi antropologica, foss’anche a scapito dell’effettiva applicabilità del provvedimento e della sua capacità di conseguire significativi risultati di miglioramento della complessiva performance competitiva delle imprese italiane. In realtà, è una scelta resa giuridicamente e organizzativamente necessaria, da un lato, dall’evoluzione normativa in materia di “natura dell’impresa” realizzatasi negli ultimi trent’anni e ormai approdata a esiti consolidati rispetto ai quali il sistema delle relazioni industriali non può più restare attardato e, dall’altro, dai potenti mutamenti generati negli scenari economici prima dalla Great Recession del 2007-2013 e poi dall’emergenza epidemiologica da Covid-19 che ha di fatto segnato la fine del trentennio della globalizzazione (tra il 9 novembre 1989, con la caduta del Muro di Berlino, e il 30 dicembre 2019, con il primo paziente censito a Wuhan come affetto da SARS-CoV-2).
É evidente che mai come in questa fase storica l’impresa debba costituirsi, rappresentarsi e condursi quale comunità (fondata come tale e non come mera società; ispirata dalla condivisione di valori e non di meri interessi; fondata su un foedus e non su un mero negotium), e i suoi protagonisti debbano organizzare le proprie relazioni in modo strutturato, affidabile ed esigibile, rispettoso dell’autonomia delle parti e orientato a una vocazione collaborativa nel nome del bene comune ma “agonistica” nella sua declinazione operativa. La proposta di legge è in questa direzione apertamente “neo-corporativa”, e lo rivendica senza esitazioni: un’economia prospera non si può sviluppare autenticamente senza il concorso di tutti gli attori istituzionali e sociali, in un processo in cui l’orizzonte comunitario dei valori si declina in decisioni corali.
Non va d’altronde dimenticato come, se vi è un elemento unificante, nelle pur aspramente divise culture politiche del Novecento, esso sia offerto proprio dalla partecipazione dei lavoratori: non è affatto un caso se in Assemblea Costituente un emendamento Gronchi-Pastore-Fanfani fu votato anche dai comunisti, divenendo il solenne monito dell’art. 46 Costituzione: Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende. La destra sociale e nazionale, il personalismo cattolico (si pensi solo al Codice di Camaldoli del 1943), il riformismo socialista, il liberalismo ben temperato, la sinistra sindacale di matrice co-determinativa: tutti si riconoscono nell’impegno per il materiamento e l’inveramento di esperienze partecipative.

La Cisl ha presentato una proposta di legge per la partecipazione gestionale, economica, organizzativa e consultiva dei lavoratori, il vostro progetto si è concentrato sulla presenza attiva dei dipendenti nelle “stanze dei bottoni”, il partito democratico ha definito la partecipazione “una svolta culturale da promuovere”: tutti d’accordo, dunque? Perché questa trasversalità ricorrente non riesce a giungere al traguardo di una proposta legislativa condivisa?

Innanzitutto è opportuno in questa sede plaudire alla Cisl che finalmente si è esposta in maniera concreta, probabilmente con finalità anche propagandistiche, per la battaglia a favore della partecipazione, rinvigorendo le sue origini come sindacato cattolico. Ad ogni modo le motivazioni che frenano una seria discussione, ed eventuale attuazione della partecipazione, hanno diverse ragioni. La prima, ad avviso di chi scrive, è legata alla mancanza di volontà da parte delle più grandi confederazioni sindacali, in primis la Cgil e la Uil le quali, nonostante innumerevoli esternazioni positive sulla partecipazione e la “democrazia del lavoro” ai tempi della Camusso, continuano a tenere in “ostaggio” la battaglia sindacale perché, altrimenti, dovrebbero riconoscere definitivamente la loro sconfitta ideologica. All’impasse sindacale, che potremmo superare con una cooperazione tra Cisl ed Ugl, quanto meno nel percorso di lotta per la partecipazione, si aggiunge anche l’incapacità delle forze politiche di trovare il coraggio di sostenere una riforma sostanziale come la partecipazione. I motivi sono differenti, in primo luogo i partiti di sinistra, per le medesime logiche della Cgil, non hanno mai fatto proprie queste istanze e le utilizzano come specchietto per le allodole con flebili proposte in Parlamento. Allo stesso tempo i partiti di destra, nello specifico Fratelli d’Italia, nonostante siano gli eredi di quel mondo politico e sindacale che fece della partecipazione un elemento essenziale di lotta, ad oggi pagano lo scotto, come tutta la destra politica e culturale, di una sudditanza ideale sia al fronte della sinistra che a quello liberale. Alle evidenti problematiche sopra elencate non bisogna dimenticare, inoltre, la forte capacità di pressione della Confindustria contro una eventuale spinta partecipativa da parte della politica.

Infine, cosa vedete nel futuro della partecipazione dei lavoratori in Italia? E quali saranno le prossime mosse di Ispa?

L’Istituto Stato e Partecipazione continuerà con il suo lavoro di studio ed approfondimento sulle tematiche della partecipazione e non solo, come è stato detto in precedenza. Naturalmente la battaglia principale è di rendere la partecipazione argomento vivo nell’attuale discussione politica e sindacale. Questo lo facciamo organizzando eventi culturali, soprattutto di presentazione della nostra proposta di legge, ma anche con il lavoro dei nostri soci nei rispettivi luoghi di lavoro e nelle file dei sindacati e dei partiti.
L’idea partecipativa è come un fiume carsico, scorre silenziosa nella storia politica del nostro paese e crediamo fortemente, in virtù di ciò che accade al sistema produttivo nazionale ed europeo, che la partecipazione sia l’unica via da percorrere.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *