Intervista a Giovanni Scansani

La sua intervista a Mitbestimmung risale a marzo 2018, ci aggiorna sul suo percorso professionale e di studio in questi 3 anni?

Ho continuato a dedicarmi alla consulenza per la progettazione di piani di welfare aziendale attraverso la società della quale sono stato co-fondatore, socio ed amministratore (Valore Welfare Srl) che nella seconda metà del 2019 ho ceduto ad un importante gruppo italiano attivo nel settore della ristorazione collettiva (Cirfood), ma da anni presente anche nel settore del welfare aziendale con una divisione dedicata all’emissione di voucher. Successivamente gli acquirenti mi hanno chiesto di affiancarli nelle fasi iniziali di sviluppo della start-up che hanno poi costituito con l’intento di operare nel settore dell’outsourcing dei servizi di supporto al welfare aziendale.

Nel frattempo ho scritto molto, ho continuato le mie collaborazioni con l’Università Cattolica di Milano, con l’Università Milano-Bicocca e ho avviato iniziative formative con alcune Business School.
Da alcuni mesi, pur continuando liberamente altre attività, sto affiancando il Provider milanese Welfare4You Srl sul fronte dello sviluppo commerciale, della comunicazione e delle partnership.
Quanto allo studio, oltre ai temi legati al welfare aziendale cui, insieme all’amico Luca Pesenti – professore all’Università Cattolica di Milano – ho dedicato un libro che si è concentrato sull’evoluzione del welfare d’impresa durante e dopo la pandemia (“Welfare Aziendale: e adesso?” edito da Vita e Pensiero) e con la cui cattedra collaboro come docente a contratto coordinando il Laboratorio dedicato alla progettazione dei piani di welfare aziendale, continuo a seguire e a studiare l’evoluzione dell’altra “leva” organizzativa che mi appassiona e che è sempre più strategicamente rilevante per le imprese: quella della Partecipazione diretta dei lavoratori all’organizzazione del lavoro.
Ovviamente, in quest’ultimo periodo, non poteva mancare anche l’interesse per uno degli argomenti più dibattuti nel mondo del lavoro, anche perché ancora molto confuso: lo smart working che, nella sua versione autentica, presenta interessanti punti di contatto sia con i temi del benessere individuale ed organizzativo, sia della stessa Partecipazione diretta.
Lo smart working sarà il tema del prossimo libro che sto finendo di scrivere, anche questo a quattro mani con Luca Pesenti. L’intento è quello di offrire una rilettura del fenomeno sul piano della ricostruzione della sua reale natura: è questa una vera e propria necessità, non foss’altro per superare le narrazioni, spesso distorte, che sono state sin qui offerte da un mainstream che, paradossalmente, invece di farsi espressione di opportuni distinguo, ha finito per accettare l’impossibile equiparazione tra “lavoro da remoto forzato” (dall’emergenza pandemica) e reale “lavoro agile”.

Come si è evoluto in questi anni il suo punto di vista sui temi della partecipazione dei lavoratori?

L’incessante evoluzione tecnologica e la parallela “grande trasformazione” del lavoro, entrambe in atto da ben prima della pandemia e che, per certi aspetti, l’emergenza sanitaria ha ulteriormente accelerato (come l’esperienza della remotizzazione di massa del lavoro non manuale dimostra) si collocano tra i presupposti di quel cambio di paradigma manageriale ed organizzativo con il quale uscire decisamente dalle rigidità del fordismo tuttora diffuse.
Del resto, si è avviato da tempo quel processo di crisi della subordinazione cui progressivamente vanno affiancandosi quote crescenti di lavoro non più proceduralizzato in burocratiche mansioni ed organizzato in luoghi e con orari prefissati (gli “uffici-fabbrica di fantozziana memoria” per dirla con Federico Butera), ma sempre più qualificato dal protagonismo di persone che possono esprimersi interpretando ruoli agìti in un rinnovato quadro di ingaggio, di commitment e di responsabilità, ossia in una parola: di partecipazione.
Da queste sintetiche premesse ne consegue che la Partecipazione organizzativa non è più una questione politica, ma strategica. È anche una questione di stile di leadership (è in gioco il potere solo per i manager e gli imprenditori miopi) e di evoluzione della followership (partecipare è più impegnativo della mera esecuzione, ma accresce la dignità e la qualità del lavoro).
La Partecipazione “letta” con il prisma della contemporaneità e del futuro che è già cominciato è una “leva” senza la quale le imprese non possono cogliere appieno i frutti delle trasformazioni in atto e soprattutto, in chiave prospettica, non potranno conseguire pienamente i vantaggi competitivi che l’innovazione tecnologica consente di ottenere.
Del resto la tecnologia, da sola, non basta; è solo “nuda tecnologia” e non è capace, di per sé, di trasformare in profondità il lavoro e la sua organizzazione.
Per far questo occorre uno sforzo culturale non meno trasformativo ed occorre l’apporto – la partecipazione, appunto – delle singole individualità che nei contesti altamente tecnologizzati sono sempre più centrali. E lo sono sotto il duplice profilo della Persona intesa come lavoratore e del lavoratore inteso come Persona (il che ci dice anche come l’innovazione organizzativa vada di pari passo con l’irrobustimento delle policy di welfare aziendale).
L’apporto cognitivo, esperienziale ed operativo di lavoratori sempre più istruiti e competenti presuppone – nell’armonico collettivo espresso dal team nel quale ciascuno è inserito – maggiori spazi per liberare il pieno potenziale di ogni collaboratore, ossia la concreta possibilità di esercitare un’opzione di voice che possa mettere ognuno nelle condizioni di co-progettare il lavoro e corresponsabilizzarsi rispetto ai risultati di ciascuno e dell’impresa complessivamente sentita come comunità coesa rispetto agli obiettivi che si pone.
L’evoluzione tecnologica mette in conto inevitabilmente di accrescere spazi di empowerment, di orientamento individuale al problem solving, di cooperazione in ambienti sempre meno gerarchici nel senso verticale del disegno della leadership e quindi più orizzontali, ossia arricchiti da elementi come la fiducia, una delega più diffusa, pur nel mantenimento di un imprescindibile centro decisionale di direzione complessiva.
Ciò rimanda all’idea di un’impresa più efficiente anche guardando alle nuove modalità di esecuzione della prestazione lavorativa che sono destinate a restare – vedremo in che misura – come stabile eredità nel post-pandemia.
Alludo ovviamente allo smart working (quello autentico) che oltretutto esprime, in sé, un certo grado di Partecipazione.
L’accordo individuale che regola il “lavoro agile” è, infatti, uno spatium deliberandi che le parti (l’imprenditore o il manager e il singolo collaboratore) hanno a disposizione proprio per co-progettare il lavoro, condividerne gli obiettivi e fissare i criteri di misurazione dei risultati.
La partecipazione all’organizzazione del lavoro riguarda, quindi, anche il lavoro reso a distanza, purché questa condizione sia organizzata senza che si eroda quell’imprescindibile “capitale sociale” rappresentato dai legami, dalle relazioni e dagli scambi che, posti a fondamento di quella produzione di “sapere collettivo” nella quale si sostanzia la vita di un’organizzazione umana (qualunque essa sia), ne rappresentano il complessivo valore che nessuna impresa può e vuole perdere. E si tratta di un valore che non vogliono perdere neppure i lavoratori che tanto faticosamente quel “capitale” hanno contribuito a costruire nel tempo e del quale essi stessi sono la prima tangibile espressione.
In definitiva un’innovazione organizzativa solida deve transitare dalla sua co-progettazione con i lavoratori chiamati ad esprimerla. Una reale trasformazione del lavoro capace di generare tangibili effetti, anche in termini di miglioramento della produttività, dev’essere partecipata o non può essere realmente tale.

Uno sguardo al futuro: come rafforzare la cultura della partecipazione in Italia? Quali i prossimi passi che suggerisce?

La Partecipazione organizzativa non è un percorso che si costruisce a tavolino: è un paradigma culturale che richiede uno sforzo ed una sua maturazione associata alla considerazione che lo sviluppo condiviso dell’impresa, intesa come bene comune, equivale anche a rafforzare la tutela dei lavoratori e gli interessi dell’imprenditore.
Non solo. I contesti partecipativi facendo il bene dell’impresa finiscono anche per avere un impatto positivo sul territorio nei quale l’impresa è basata ed hanno anche un potenziale positivo effetto più generale di carattere sociale: la diffusione della cultura partecipativa e della condivisione delle responsabilità fa bene all’intera società nella quale una delle mancanze dell’oggi è data proprio dallo scarso livello di partecipazione della gente alla cura degli interessi collettivi.
C’è quindi una certa “circolarità” che la Partecipazione può attivare e un intervento normativo per sostenere questa prassi dovrebbe essere ritenuto necessario per sostenere questo interesse generale.
Ovviamente tale intervento avrebbe funzioni ed intensità differenti a seconda del tipo di Partecipazione cui ci si voglia riferire.
Quanto alla Partecipazione organizzativa si tratta, da un lato, di immaginare una norma che possa agire come strumento di nudging (dunque senza comportare alcuna obbligatorietà applicativa) che favorisca la nascita di “sperimentazioni” e buone prassi con le quali “contaminare” il tessuto produttivo perché è evidente che il fondamento di questo tipo di Partecipazione e la sua concreta estrinsecazione nei singoli contesti aziendali debba trovare la sua sede naturale nell’ambito dell’esercizio della libertà d’impresa e in quella contrattuale, sulla premessa maggiore che si possa disporre di un forte supporto culturale condiviso (la partecipazione non può essere imposta da una delle parti).
Dall’altro lato, devono forse essere immaginati degli incentivi più robusti – sia per le imprese che per i lavoratori – rispetto a quelli sin qui attivati. La decontribuzione di una quota del premio di risultato, se erogato cash in aziende dove siano stati attivati meccanismi di “partecipazione paritetica”, ha sì prodotto un certo numero di casistiche – 1.169 secondo l’ultima rilevazione del Ministero del Lavoro pari all’11,4% sul totale di 10.238 contratti attivi alla data del 15.6.2021 – ma si tratta ancora di numeri complessivamente esigui (forse anche a causa di un’eccessiva “burocratizzazione” della progettualità richiesta dall’Agenzia delle Entrate per accedere al regime di favore).
L’erogazione degli incentivi dovrebbe essere basata su una gradualità in funzione della misurazione degli impatti generati e a fronte della rendicontazione di prassi virtuose che possano dimostrare la produzione di effetti positivi sul piano economico, su quello dell’innovazione organizzativa e della produttività. In questo senso un’ipotesi interessante, sviluppata oltre vent’anni fa da Guido Baglioni con Maurizio Castro, Michele Figurati, Mario Napoli e Domenico Paparella, prevedeva l’istituzione ed il riconoscimento dello status di ”impresa partecipativa” non solo come condizione per l’accesso agli incentivi dedicati allo sviluppo delle prassi di Partecipazione, ma anche per altre agevolazioni fiscali relative, ad esempio, agli investimenti destinati ad ampliare la capacità produttiva, ai finanziamenti in materia di R&S, innovazione tecnologica, formazione professionale. Le attuali riflessioni sul PNRR e su quanto in concreto ne seguirà dovrebbero attingere a queste considerazioni e le risorse disponibili potrebbero rappresentare un’imperdibile occasione per sostenere lo sviluppo di queste prassi che appaiono del tutto coerenti con gli obiettivi di una robusta ripartenza e per il consolidamento nel tempo dei suoi effetti.
C’è poi il tema delle RR.II.: qui si tratta di dare concretezza a quanto espresso nei più recenti documenti programmatici e negli accordi interconfederali: dalla “Carta delle Relazioni Industriali” a suo tempo voluta da Federmeccanica sino al “Patto della Fabbrica” che ha posto tra le sue priorità proprio ed anche la diffusione di prassi partecipative.
Nel solco di quell’intesa, oltre a quanto poi è passato e sta passando nei livelli contrattuali, sarà interessante vedere quali sviluppi si potranno registrare nelle diverse aree produttive del Paese. Un impegno in tal senso è stato assunto da Assolombarda, CGIL, CISL e UIL pochi mesi prima dell’irrompere della pandemia. L’Accordo interconfederale territoriale sulla Partecipazione, siglato il 4 ottobre 2019, sulla premessa del riconoscimento dell’importanza dell’apporto esperienziale dei lavoratori quale essenziale contributo all’efficienza produttiva, prevedeva un’intensa azione di sostegno alla diffusione delle prassi partecipative tramite workshop, iniziative di formazione per manager e sindacalisti e la promozione di sperimentazioni da avviare con la contrattazione aziendale.
È infine utile sottolineare come il ricorso alla Partecipazione abbia avuto una sua diffusa manifestazione proprio durante la fase più critica della pandemia attraverso i “Protocolli Aziendali” e l’istituzione dei “Comitati Aziendali” chiamati a darvi attuazione in ottemperanza al “Protocollo condiviso” nazionale. Una dimostrazione di come, attraverso la Partecipazione, l’impresa – come sempre avviene nelle crisi epocali – possa essere vissuta non come luogo di conflitto, ma come luogo di coesione per la difesa di un bene supremo e comune quale è il lavoro (quello di tutti: dipendenti, manager e imprenditori). Proprio per non perdere la ricchezza di queste premesse alcuni recenti CCNL hanno rafforzato i meccanismi di partecipazione, sia pure indiretta (quindi condivisa con il sindacato), ma hanno anche posto utili premesse per l’introduzione ex novo o per il perfezionamento di meccanismi partecipativi di tipo diretto già esistenti a livello aziendale.
Speriamo che la fase di uscita dal buio tunnel della pandemia ci lasci in eredità anche l’affermazione della Partecipazione organizzativa come strumento capace di ridisegnare il senso del lavoro e quindi anche il suo significato e la sua direzione che, al di là di ogni considerazione sulle grandi trasformazioni in atto rese possibili da un’innovazione tecnologica senza precedenti, non può che essere, anzitutto, la piena realizzazione e la fioritura dell’umano. E questo anche per contrastare talune spinte individualistiche ed individualizzanti che, se estremizzate, rischiano non solo di scardinare il senso di appartenenza alla collettività aziendale, ma di ridurre (se non annullare) gli effetti generativi che invece i luoghi della partecipazione – tra i quali le imprese intese nel loro senso fisico e “topografico” – sono sempre capaci di produrre.

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