Intervista a ISMO

Vito Volpe – Presidente

Parlateci di voi…

ISMO è la “start-up” più longeva e dunque più innovativa. Infatti ha 45 anni, ma vive in una condizione di perenne giovinezza e di inconcludenza generativa.

ISMO è nata come incontro e convergenza di interessi culturali e intellettuali intorno alle questioni dei gruppi, dei comportamenti organizzativi, della partecipazione nel lavoro e non solo. A ciò si è via via aggiunto un impegno professionale e, dunque, un’attività di impresa di consulenza nella formazione del personale e del cambiamento organizzativo.

Maurizio Belloni – Partner

Oggi ci occupiamo di molte più cose, ma senza aver perso lo spirito iniziale, cioè la ricerca e l’intervento su sistemi sociali, soprattutto imprese ed enti, ma anche sindacati, scuole, pubbliche amministrazioni, comunità e fenomeni / processi collettivi trasversali, come l’orientamento e l’accompagnamento al lavoro, l’occupabilità, la disoccupazione, il disagio scolastico, l’immigrazione, la mobilità, il bullismo…

 

 

Marco Carcano – Partner

Il nostro è soprattutto un lavoro di intervento sistemico, psicologico, formativo, tecnico e sociale conseguente a un lavoro diagnostico, interpretativo sulle questioni che siamo chiamati ad affrontare anche grazie a una sempre più efficace strumentazione tecnica e metodologica in grado di rendere la stessa lettura dei fatti una fonte di apprendimento e di trans-formazione: una diagnosi a cui si accompagna un progetto di cambiamento, come ricordato da E. Spaltro in “Gruppi e cambiamento” (Etas Kompass, 1975).

Roberto Ferrari – Partner

Lavoriamo per specifici sistemi sociali nel campo del cambiamento comportamentale, culturale, organizzativo, istituzionale in una prospettiva partecipata e condivisa. Non ci sono risposte valide per tutte le stagioni.

Il nostro lavoro ha una prospettiva psico-sociale ed è, perciò, consulenziale, perché apre e non chiude, lavora sulle risorse del “cliente”, consiglia e non impone, si aggiunge e non vicaria altri ruoli e responsabilità. Ogni risultato (e sono veramente tanti i risultati realizzati in quarantacinque anni) vale per quella specifica situazione. Non è riproducibile e generalizzabile nelle sue soluzioni, ma nel metodo diagnostico e di ricerca per conoscere e per intervenire ad hoc, caso per caso…

Maria Giovanna Garuti – Partner

Le capacità di interpretazione e di intervento restano sempre nel segno dell’inconcludenza, della relatività, del provvisorio, dell’indefinito e per questo sono produttrici di apprendimento.

In questa voglia di andare “oltre” e di relazionarsi ad “altri” sta la forza della nostra esperienza.  Con grande fatica ogni attimo, ogni giorno, ogni anno del nostro lavoro si colloca in una prospettiva di “eternità” e di infinità che facciamo per noi stessi, per ciascuno di noi, e per i mondi che intercettiamo.

 

Marina Maderna – Partner

Ci piace pensare a ISMO come a un sistema aperto che rischia più l’evanescenza del suo girovagare che non la fissa a una coazione a ripetere, più l’ansia del dubbio, del pensiero laterale e dell’ “horror vacui”, che la compattezza illusoria del dogmatismo, e la sicurezza dell’ideologia, del senso unico. Più l’incertezza e la delicatezza del dialogo, del plurale che non la volgarità e unicità del comando.

 

 

Andrea Pallante – Partner

ISMO come dialogo professionale, come un cerchio di sedie non tutte occupate, come un insieme di capannelli, come una conversazione che comprende anche “discorsi inutili”. Un luogo dove si cerca di cosa parlare e non si parla solo di ciò che è già previsto (P. Barcellona, 18/9/2010).

Molte cose anche della nostra esperienza professionale ricalcano questi principi, non senza difficoltà… In ISMO prevale il valore del capire più che dell’obbedire, la fiducia, il conflitto e il dialogo come espressione della nostra coesione e e del nostro agire collettivo.

Silvia Roà – Partner

La prima vittoria di ISMO è proprio avere 45 anni e perciò quella di essere un’impresa, oggi un’istituzione, che ha garantito e garantisce il suo sviluppo attraverso i desideri e le aspirazioni individuali di chi opera in esso e dunque un apprendimento sistemico prodotto da soggettività differenziate, aperte l’una all’altra. Per questo ISMO è prima di tutto un produttore di cultura sociale, istituzionale e organizzativa, di formazione al cambiamento, di metodi di apprendimento, di partecipazione.

Andrea Volpe – General Manager

Moltissimi sono gli interventi professionali realizzati in tanti anni per imprese, istituzioni, enti, comunità… Tutti documentati e alcuni anche pubblicati.

Un accento va messo proprio sulla nostra pubblicistica: in questo ultimo decennio abbiamo completato i dieci numeri dell’ “L’impresa al plurale”, diretta da Guido Baglioni con Vito Volpe e Marco Carcano. Abbiamo pubblicato diversi libri e saggi, abbiamo partecipato a tanti eventi culturali, convegni e conferenze. Abbiamo lavorato con tante università e centri studio in Italia e all’estero. Con la Fondazione Pastore abbiamo svolto incontri di ricerca sul “Declino” e su “Lavoro e Sviluppo” a partire dal 2005. Continuiamo i nostri tradizionali incontri del sabato intitolati “Lavori IN Corso”, i nostri Master, rinnovati nella loro configurazione e nel metodo didattico, i laboratori di dinamiche di gruppo istituzionali, di outdoor, di danza, di teatro e altro ancora.

Il tema della partecipazione dei lavoratori è difficile ma soprattutto complesso: quali sono i fattori facilitanti e quali quelli ostacolanti l’approccio partecipativo ?

Luigi Volpe – Partner

A questa domanda si può rispondere scavando in due direzioni; da un lato mostrando come non esiste la partecipazione o, meglio, sempre si partecipa, ma ci sono diverse forme di partecipazione che rendono questa complessa ma praticabile; dall’altro di individuare quali sono i fattori che possono facilitarla e, al contrario, quali sono gli elementi che possono contrastarla. Detto in altri termini si tratta di individuare la specificità della partecipazione e di trovare i suoi punti di forza e debolezza.

Per i ragionamenti che vogliamo qui sviluppare la partecipazione possiamo intenderla come quel processo socio-organizzativo nel quale sono coinvolti diversi attori – la proprietà dell’azienda e i suoi manager e i lavoratori e le loro rappresentanze –   che ha come scopo, da un lato, l’efficacia e l’efficienza dell’impresa e, dall’altro, il benessere organizzative e personale di tutti i dipendenti.

Una caratteristica fondamentale della partecipazione è quella di presentarsi, nella concreta realtà, in forme molte differenti.

Innanzitutto possiamo avere una partecipazione formale ed informale dove con la prima, quella formale, si intende quella che si sviluppa all’interno di regole, istituti, organismi che trovano una sistematizzazione in una apposita documentazione, mentre con la seconda, quella informale, si intendono quei processi tecnici e relazionali che, pur non essendo codificati in nulla di scritto, alimentano la vita quotidiana dell’impresa. Tenendo conto di questa distinzione si può affermare che in Italia mentre la partecipazione formale ha sempre incontrato, e incontra, parecchie difficoltà, quella informale sembra essere piuttosto presente dato anche le caratteristiche del nostro tessuto economico che presenta. come è noto, una corposa presenza di piccole e medie imprese.

In secondo luogo possiamo avere una partecipazione incisiva o forte e una partecipazione non incisiva o debole.

Questa classificazione, evidentemente molto valutativa, ci permette di sviluppare una specie di classifica delle diverse forme partecipative ma dietro di essa c’è, non si può nasconderlo, un criterio, di fatto soggettivo, che privilegia una partecipazione di tipo istituzionale rispetto a quella economica e diretta.

Inoltre possiamo distinguere fra partecipazione diretta e partecipazione indiretta.  Questa modalità di ragionamento è particolarmente importante perché ci permette di cogliere la differenza fra lavoratori e rappresentanti degli stessi.

Infine una ultima distinzione è fra partecipazione alla gestione  ovvero agli aspetti operativi della vita aziendale   e partecipazione ai risultati economici dell’impresa. Si tratta, ovviamente, di due forme partecipative molto differenti in quanto, quella gestionale, ha risvolti particolarmente significativi sotto il profilo organizzativo mentre, quella economica, riguarda, in definitiva, la compartecipazione alle performance complessive dell’impresa.

Le distinzioni sulla partecipazione fin qui espresse ci permettono una classificazione delle forme partecipative in: a) partecipazione diretta o operativa; b) partecipazione economica; c) partecipazione istituzionale e/o governo dell’impresa.

Perché una aggregazione così sintetica ?. Perché dall’esperienza professionale che stiamo sviluppando in parecchie aziende emerge che: a) si vuole “contare di più” nel proprio lavoro; b) si cerca e si vuole un riconoscimento economico che va al di là della retribuzione base e, in questa direzione, anche se tale elemento non vale per tutti i lavoratori, c’è una certa disponibilità a partecipare al rischio d’impresa.; c) perché, in particolare il sindacato non vuole essere fuori dai processi decisionali che influenzano maggiormente la vita aziendale.

Ma questa classificazione pensiamo che possa essere giustificata anche sul piano più strettamente teorico se utilizziamo il criterio, per noi convincente, di qual è il fondamento della partecipazione.

Nella partecipazione diretta il fondamento è il “lavoro concreto” o, meglio ancora, l’organizzazione del lavoro che porta con sé innumerevoli questioni sia di carattere oggettivo (le competenze tecniche), che di carattere più soggettivo (il sistema di relazioni con particolare riguardo al rapporto capo-collaboratore e alle logiche del lavoro di gruppo). Detto in altri termini si può sostenere che Il fondamento della partecipazione diretta risiede nel rapporto fra persona e lavoro o, meglio, fra persona e organizzazione del lavoro. Insomma la partecipazione diretta riguarda la gestione dell’operatività.

Nella partecipazione economica il fondamento è la retribuzione o, se si vuole,  il reddito collegato alle performance aziendali. In questa forma partecipativa si accetta, in una certa misura il rischio d’impresa anche se con strumenti molto diversi fra loro. Questo tipo di partecipazione, come del resto le altre per differenti motivi, richiede lo sforzo di uscire fuori da concezioni tradizionali dell’impresa per abbracciare una visione dell’impresa come (quasi) comunità.

Nella partecipazione istituzionale il fondamento risiede nella distribuzione del potere e ciò mette parzialmente in discussione una caratteristica fondamentale del governo dell’impresa che è quella della prerogative manageriali e imprenditoriali

E veniamo ora ai fattori facilitanti ed ostacolanti la partecipazione che sono stati pensati, ed esposti, come una specie di check list speriamo utile per impostare esperienze di partecipazione aziendale.

L’esperienza di studio attraverso la gestione, con il professor Baglioni, della rivista “L’impresa al plurale. Quaderni della partecipazione”  e, soprattutto, la consulenza professionale, ci hanno permesso di cogliere quali sono i fattori ostacolanti e facilitanti i processi partecipativi.

Possiamo classificare tali fattori in queste categorie:

  1. istituzionali interni all’impresa;
  2. la normativa di riferimento esterna all’impresa e distinguibile nella via legislativa e contrattuale;
  3. gli elementi strutturali che caratterizzano il sistema economico in cui è inserita l’impresa o l’azienda stessa;
  4. gli elementi “culturali” che fanno da sfondo al comportamento degli attori della partecipazione;
  5. i comportamenti operativi di chi, quotidianamente, è inserito in (potenziali) processi partecipativi.

Guardando ai fattori istituzionali interni all’impresa due sono le esperienze che ci sembra utile ricordare.

Innanzitutto quella del gruppo Lamborghini in quanto nelle imprese appartenenti a tale gruppo  esiste, come abbiamo già ricordato, una “Charta” del lavoro che, in una certa misura, obbliga il management, in particolare quello del personale, a ricercare forme partecipative che siano riconosciute come tali dal maggior numero dei dipendenti. Per esemplificare, nella partecipazione gli interlocutori devono essere rappresentativi, competenti e credibili. Le esperienze di questo tipo dimostrano l’importanza del “dato istituzionale”, delle regole che, se non vanno sopravvalutate non debbono neppure essere sottovalutate.

Una esperienza interessante che ci è offerta dalla  letteratura specialistica è quella olivettiana nella quale la partecipazione aveva anche momenti formalizzati. L’interesse verso questa esperienza è duplice; da un lato per lo stretto rapporto fra l’impresa e il suo territorio circostante che, per certi versi, anticipa quella che poi verrà chiamata la responsabilità sociale d’impresa; dall’altro  per i significativi istituti di welfare aziendale – primi fra tutti l’asilo nido e la biblioteca – che hanno lo scopo di intervenire sul benessere sociale nella consapevolezza che questo elemento ha risvolti positivi sulla motivazione al lavoro.

Guardando alla legislazione ovvero alle norme prodotte dal Parlamento, si possono cogliere due evidenze empiriche; innanzitutto cha la partecipazione non è stata normata dalla legislazione ordinaria nonostante che un preciso articolo della Costituzione – l’art. 46 – invitasse a farlo; in secondo luogo che, spesso le parti sociali, richiedono un intervento legislativo anche se, al loro interno, sono divisi fra chi chiede una normativa “vincolante” e chi, al contrario, propende per una normativa “promozionale”. Forse anche per questa divisione della strategia  dei “corpi intermedi” il legislatore non è stato propenso a concludere l’iter parlamentare  pur in presenza di disegni di legge che portavano la firma di forze politiche differenti. Al di là comunque dello “stato” della legislazione quello che ci sembra si “respiri” nelle imprese o, meglio, fra gli addetti ai lavori è che comunque la legislazione deve essere “curvata” rispetto alle situazioni reali e quindi non deve essere troppo invasiva rispetto alle prerogative manageriali e sindacali.

Ma, come è noto, le regole sul lavoro passano, anche e/o  soprattutto, dalla normativa prodotta dalla contrattazione collettiva sia livello nazionale che aziendale. In questa direzione si assiste ad un duplice fenomeno; da un lato la presenza  di recenti accordi confederali che disegnano un nuovo modello di relazioni industriali dove  la partecipazione non assume un ruolo marginale; dall’altro la presenza in accordi aziendali – i più significativi dei quali sono riportati da diversi osservatori, quali Cisl e Adapt – di norme sulla partecipazione con particolare riferimento a quella economica e diretta.

Un approfondimento particolare meritano quei fattori che abbiamo chiamato, convenzionalmente, strutturali e quasi strutturali.

Essi, come vedremo, giocano un ruolo facilitante o ostacolante a seconda del loro grado di presenza.

Un primo fattore è relativo alle convenienze economiche che possono produrre i processi partecipativi. Esse sono rinvenibili in due direzioni:  innanzitutto nell’aumento della produttività, misurabile abbastanza facilmente, fondamentalmente dovuta ai suggerimenti che il personale operativo è in grado di fornire intorno ad una migliore organizzazione del gruppo di lavoro in cui opera;  dall’altro nella diminuzioni dei costi che spesso si accompagna ad aumenti della produttività individuale e collettiva.

Un secondo fattore  è relativo alla dimensione dell’impresa. Nelle conversazioni quotidiane spesso si sente affermare che la partecipazione è possibile solo nelle grandi imprese. Tale tesi, che contiene molti elementi di verità, va però “corredata”, almeno secondo la nostra esperienza, da due altre considerazioni: in primo luogo è possibile “partecipare” anche nelle piccole imprese quando la “sensibilità” dell’imprenditore va in quella direzione; inoltre qualsiasi azienda è scomponibile in più “parti” (reparti, uffici, officine, team di lavoro, ecc..) ed è in queste “parti” (magari non in tutte) che si possono attivare, più facilmente, esperienze di partecipazione diretta.

Da queste considerazioni si evince che la dimensione d’impresa può ricoprire un ruolo ambivalente  nel senso di amico/avversario dei processi partecipativi.

Ma la questione della dimensione d’impresa si trascina quella del “luogo” della partecipazione. Non è nello scopo di questa intervista – che esamina la partecipazione in senso generale –  affrontare questa complessa problematica  ma è indubbio che, con l’implementazione della digitalizzazione,  si stia andando verso “l’indifferenziazione” dei luoghi della produzione dei beni e, forse, dell’erogazione dei servizi. Ciò produrrà degli effetti anche su alcune forme di partecipazione perché l’impresa è molte “cose” fra cui, non marginalmente, un luogo produttore di relazioni e identità.

Un terzo fattore è relativo ai livelli dell’istruzione e, quindi, ai livelli di qualificazione dei lavoratori. Anche in questo caso siamo di fronte a una difficile collocazione fra i fattori facilitanti e ostacolanti; infatti facendo riferimento a due imprese manifatturiere di uguale dimensione ma di differente settore produttivo troviamo che in un caso la “voglia di conoscere e sperimentare” dei lavoratori con più basso livello di istruzione ha, in qualche modo, trascinato verso la partecipazione  altre figure professionali dotate di maggiori competenze; nell’altro caso la corposa presenza di profili professionali ad alta qualificazione (molti ingegneri) non è stata certo di ostacolo  a processi partecipativi più coinvolgenti.

Un quarto fattore è relativo ai modelli di organizzazione produttiva ovvero alle modalità di organizzare il lavoro attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie (fenomeno spesso noto come industria 4.0). Qui la partecipazione diventa necessaria – si potrebbe quasi  dire “insita” – per garantire efficienza nell’utilizzo delle tecnologie anche se non va mai dimenticata una certa discrezionalità del fattore umano. Esemplare sotto questo profilo è la nuova figura del “team leader” che deve essere dotato non tanto di autorità gerarchica quanto di autorevolezza professionale.

Un quinto fattore sono tutti i meccanismi operativi – in primis i sistemi informativi – ovvero tutto ciò che fa funzionare la macchina organizzativa dell’azienda. Per il successo della partecipazione, e qui siamo fra i fattori facilitanti, un ruolo essenziale è quello della efficacia ed efficienza delle riunioni. Qui possiamo cogliere due aspetti che possono destare qualche preoccupazione; da un lato che le riunioni “face to face” sono sempre meno anche per un utilizzo, giusto, delle nuove tecnologie; dall’altro che quando si fanno sono sempre più “disturbate” dalle nuove tecnologie che, non ben governate, tolgono la persona dal “contesto” in cui dovrebbe essere profondamente inserito.

Infine un sesto fattore riguarda la situazione aziendale. La nostra esperienza ci dice che, paradossalmente, è più facile che si inneschino processi partecipativi in situazioni di forte benessere economico o, al contrario, di pericoli di chiusura dell’impresa.   Detta con una metafora la partecipazione è favorita dal “lusso” o dalla “crisi”.

Se queste sono i fattori strutturali fermiamoci ora su quelli “quasi strutturali”.

Un primo fattore riguarda la strategia delle forze sociali ovvero dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali. Guardando il problema dall’interno dell’impresa, ovvero parlando anche con i responsabili delle risorse umane e le rappresentanze sindacali , non abbiamo mai avuto la sensazione che l’innescare o meno processi di partecipazione abbia una relazione significativa con le strategie della propria organizzazione di appartenenza. Sotto questo profilo potremmo dire che le strategie delle forze sociali sono un fattore ”neutro” rispetto alla partecipazione. Scavando però in alcune situazioni ci si accorge che la situazione è più articolata e quindi che essere “dentro la linea” o “fuori dalla linea” non è un elemento totalmente marginale.

Un secondo fattore riguarda la non sufficiente consapevolezza delle difficoltà di trasferire i “riti” o, meglio, le “logiche” della democrazia politica all’interno dell’azienda (portiamo la Costituzione nell’impresa). Ora se è giusto garantire i diritti fondamentali in ogni luogo dove ci sia una espressione umana, è però importante avere presente che ogni organizzazione è caratterizzata da una specifica razionalità. Detto semplicemente e schematicamente mentre in “politica” prevale, quasi sempre, la razionalità del “consenso”, nei fatti economici – e l’impresa rappresenta l’aspetto micro del sistema economico –  non può non essere presente la razionalità dell’efficienza. Questi due paradigmi di riferimento bisogna sempre tenerli “connessi” se si vuole evitare di andare fuori binario.  In altri termini non si tratta di fare “più elezioni in azienda” quanto di garantire “più diritti” appunto attraverso anche la partecipazione.

Un terzo fattore riguarda la sottovalutazione dell’importanza delle competenze utili per generare una efficace partecipazione. Quello che si vuole dire in questo caso – e tale osservazione vale per non poche delle esperienze da noi sviluppate – è che si trascura l’importanza  degli atteggiamenti e delle conoscenze necessarie in un contesto partecipativo.  A nostro giudizio il “partecipativo ideale” deve possedere la conoscenza delle logiche aziendali e sindacali e avere maggiore confidenza sia con il linguaggio economico-aziendale che con quello della contrattazione collettiva oltre, naturalmente, a non essere uno sprovveduto per quanto riguarda la conoscenza della normativa sulla partecipazione nelle sue diverse manifestazioni.

Un quarto fattore è rinvenibile nella rappresentatività del sindacato e nel suo grado di unità. Questa affermazione non è vera in tutte le situazioni in cui c’è stata una nostra presenza  – quando c’è una formalizzazione della partecipazione questo fattore ha una minore importanza – ma in parecchie conversazioni con rappresentanti  sindacali e dell’associazionismo imprenditoriale è emersa soprattutto, l’importanza, per l’impresa, di avere un unico interlocutore.

Infine è indubbio che il grado di successo della partecipazione sia legato alla percezione del grado di equità dello scambio.   Qui entriamo in un “territorio” complesso in quanto non tutto ciò che è “scambiabile” è, nello stesso tempo, “misurabile”.

E veniamo agli elementi culturali che incidono sui processi partecipativi.

Un primo fattore è ravvisabile nella visione dell’impresa. Per le imprese in cui la nostra proposta non ha trovato accoglienza è utile esplicitare le ragioni, i motivi che sono stati addotti per giustificare tale diniego.

C’è chi ritiene, come il direttore delle relazioni industriali  di una importante azienda alimentare, che  la partecipazione è un tema “sensibile” intendendo, probabilmente, con questo termine il fatto che essa, ed è vero, tocca la distribuzione del potere all’interno dell’impresa.

C’è chi, collocando la partecipazione nei processi innovativi, ha paura di generare tensioni e problemi che poi non è in grado di gestire.

C’è chi invece ha una scarsa volontà di valorizzare le cosiddette competenze soft (capacità di dialogare, di lavorare in gruppo ecc…) che, nei processi partecipativi, hanno un ruolo rilevante.

C’è chi inoltre esercita una filosofia manageriale, di tipo fondamentalmente autoritario, non coerente con logiche partecipative.

C’è chi infine non promuove esperienze di questo tipo, e ciò ci è stato fatto rilevare da qualche amministratore delegato, perché non ritiene utile innestare aspettative che non ritiene di potere mantenere in modo continuativo.

Un secondo fattore è relativo a una certa visione del lavoro. In questa direzione ci sono alcuni elementi che certamente ostacolano i processi partecipativi. Ci possiamo riferire:

a) alla non accettazione, da parte dei “tecnici” che spesso ricoprono anche ruoli gestionali, della presenza di un “sapere operaio” che, invece,, rappresenta per l’impresa spesso una risorsa non utilizzata in modo produttivo;

b) alla accettazione acritica della tensione fra management e operai vista come un fatto quasi naturale invece che come un effetto di certi modi di concepire l’esercizio della leadership;

c) alla scarsa volontà di “connettersi” ovvero di essere attenti a cogliere le attività e le logiche di diverse parti dell’impresa;

d) alle difficoltà, per chi si sente unico “proprietario” del proprio lavoro, di avere una forte identità con l’impresa in cui presta la sua prestazione lavorativa;

e) alla presenza di stili relazionali in cui prevale la dimensione gerarchica – il comando e l’obbedienza – piuttosto che la dimensione di aiuto.

Un terzo fattore è rinvenibile nel ruolo del sindacato o, meglio, delle logiche che caratterizzano il nostro sistema di relazioni industriali. Utilizzando la terminologia di Baglioni possiamo affermare che un fattore facilitante la partecipazione è senza dubbio la presenza nel sistema di relazioni sindacali di una logica collaborativa (nei fatti oltre che nelle dichiarazioni).  Ma tra i fattori culturali che incidono sulla partecipazione- e il loro grado di presenza li fa collocare tra i fattori facilitanti o ostacolanti –   non possiamo dimenticare sia il grado di attenzione riservata alle esperienze degli altri Paesi, sia e soprattutto la volontà e/o le capacità di assumere delle responsabilità progettuali.

Da ultimo, ma non certo per importanza, dobbiamo ricordare i fattori comportamentali che rappresentano uno snodo fondamentale per il successo delle operazioni di partecipazione. In questa direzione un aspetto che riveste un particolare significato è certamente quello delle capacità personali. Con esse qui intendiamo, per esemplificare alcune qualità quali: il grado di flessibilità e/o rigidità che si ha di fronte al cambiamento; le modalità di relazionarsi nei rapporti quotidiani di lavoro; le capacità di gestione di interventi sperimentali ecc..

Qualche idea per un progetto specifico sulla partecipazione e sul ruolo che può avere la consulenza ?

L’esperienza professionale che stiamo conducendo sul tema della partecipazione ci sta indicando alcune “linee guida” che volentieri qui esplicitiamo.

Innanzitutto è indubbio che per partecipare in modo efficace ed efficiente non si può non avere una “idea”  delle logiche d’impresa, del lavoro e dei contesti economico-sociali e delle loro relazioni.

Due sono gli elementi che più ci interessa sottolineare.

Da un lato è opportuno interrogarsi sul “lavoratore del futuro” partendo da una diagnosi del lavoratore “attuale”. A noi sembra di cogliere la compresenza – almeno dalle imprese da noi seguite e dalle poche ricerche sociologiche sull’argomento – di due situazioni alquanto differenti; infatti accanto alla permanenza di tipi di lavoro “tradizionali” si sono accentuate modalità di lavoro non facilmente prevedibili e prive di alcune caratteristiche – in primis stabili orari di lavoro e non variabilità della retribuzione – tipiche dei lavori di “prima generazione”. Fin qui le differenze. Se si vogliono cogliere degli elementi comuni essi vanno cercati nel fatto che la dimensione manuale si confonde e s’interseca con quella intellettuale dando origine a una figura “ibrida” (per le categorie teoriche consolidate) come quella dei lavoratori imprenditivi o dei lavoratori “aumentati”. Sempre sul piano del lavoro un’attenzione non episodica e superficiale sui lavoratori porta a scoprire che anche all’interno di questa categoria sociale sono emersi esigenze e/o processi di individualizzazione (da non confondere con l’individualismo) che non richiedono tanto una valutazione, magari di tipo moralistico, quanto una “lettura” che sia in grado di trasformare tali esigenze in comportamenti attivi e non velleitari nel rapporto fra individuo e impresa.

Dall’altro si sta assistendo a dei mutamenti negli scenari socio-economici di non facile interpretazione sotto il profilo delle conseguenze sui fenomeni partecipativi. Infatti stanno emergendo realtà e termini assolutamente nuovi come la 2sharing economy” (economia della condivisione), economia circolare, economia delle piattaforme ecc. Da queste nuove situazioni si può cogliere sia che il “dove” produrre, ovvero il “luogo di lavoro”, diventa relativamente importante, sia che fra gli attori della partecipazione diventa più rilevante il ruolo assunto dai “clienti”.

In secondo luogo va tenuto monitorato l’andamento di alcuni “valori o criteri” che incidono sui processi partecipativi. Vogliamo alludere al “conflitto” che, giustamente ineliminabile sotto il profilo distributivo, diventa un fattore contradditorio nella sfera della produzione dei beni e servizi; alla indifferenza verso i risultati aziendali ritenuti una prerogativa imprenditoriale; alla fiducia fra le parti che, a nostro giudizio, rappresenta la “benzina” più significativa per accendere il “motore” della partecipazione; a comportamenti pro-attivi che sono indispensabili se si vuole evitare, come è accaduto in esperienze passate nate con ben altre intenzioni, che la partecipazione diventi una “procedura” a cui attenersi e non una “amica” con cui fare un percorso insieme.

Inoltre è nostra convinzione  che fra le diverse forme di partecipazione non esiste nessuna contraddizione e quindi si può pensare a una loro integrazione “virtuosa” anche se, ovviamente, la loro implementazione operativa presenta gradi di difficoltà differenti. Per il sindacato è, a mio giudizio, più conveniente concentrare l’attenzione sulla partecipazione diretta ( quella economica è più facile affrontarla con la contrattazione) senza però trascurare che, in alcuni casi, quella istituzionale può essere un volano per le altre forme di partecipazione (come è avvenuto in talune situazioni da noi monitorate).

Non va poi sottovalutato la relazione fra la partecipazione e il welfare aziendale nel senso che quest’ultimo, se gestito con modalità partecipative, rappresenta uno strumento importante per la creazione di una identità aziendale che, a sua volta, non è un fattore trascurabile per il successo dei processi partecipativi.

Infine essendo la partecipazione sicuramente un “cambiamento” rispetto alla situazione attuale è necessario porsi la domanda di “come” stare in questo processo. Alcune attenzioni ci sembrano utili. Innanzitutto ricordarsi che, almeno per il sindacato, questo attore ha avuto una certa “attenzione” verso la partecipazione ma non ha mai elaborato un “progetto” e quindi è necessario andare in questa direzione, Inoltre diventa importante sapersi assumere delle responsabilità abbastanza inedite per i lavoratori e il sindacato e quindi è necessario un “lavoro culturale” non episodico.

E veniamo ai diversi “piani” che è utile tenere presente. Lo facciamo formulando, in maniera sintetica, sette proposte:

  • è importante monitorare con attenzione la diagnosi della situazione che può cambiare in modo significativo e rendere poco realistiche o non adeguate le proposte ora in campo. Molti sono gli elementi che possono incidere in questo ambito; basti ricordare l’eventuale approvazione di una legge organica sulla partecipazione, un accordo fra le parti sociali su questo oggetto specifico, una larga implementazione del progetto Industria 4.0. E’ inoltre importante ricordare che tali cambiamenti possono investire sia l’impresa che i lavoratori;
  • può ricoprire una certa importanza promuovere, magari a cadenza biennale, una specie di “stati generali” della partecipazione organizzata dalle parti sociali con una presenza non solo simbolica delle istituzioni di governo centrale e periferico. Tale evento, e qui potrebbe starci una collaborazione con il vostro osservatorio, dovrebbe avere lo scopo di tenere acceso, anche nel dibattito pubblico e politico, una certa attenzione verso questo tema che, come è noto, rischia spesso di diventare marginale;
  • sarebbe opportuno – e qui si possono cogliere le responsabilità specifiche del sindacato e delle imprese – tentare di costruire, magari partendo dalle opportunità offerte dal nuovo contratto dei metalmeccanici, delle specie di “carta della partecipazione e del lavoro” valide per le imprese che vogliono sperimentare nuovi modelli di relazioni di lavoro;
  • sarebbe di grande importanza – e qui è fondamentale il ruolo che può assumere la contrattazione di secondo livello – consolidare ed allargare le esperienze di partecipazione diretta che passano attraverso la costituzione di gruppi di lavoro che hanno il compito di suggerire miglioramenti del processo produttivo ed erogativo e, per questa via, favoriscono un aumento della produttività che poi deve essere equamente distribuita fra tutti coloro che hanno aiutato a generarla;
  • non si può poi dimenticare il ruolo che, in questi processi partecipativi, assume la formazione che deve essere sviluppata in due direzioni:
    1. quella della conoscenza, attraverso opportune metodologie didattiche attive, delle parole chiave che devono rappresentare il “linguaggio comune” di chi è impegnato in queste esperienze. Per nostra esperienza diretta i concetti essenziali su cui lavorare sono: le diverse forme di partecipazione, la produttività economica e sociale,  la redditività, efficienza ed efficacia, qualità, tecnologia, automazione e digitalizzazione, benessere organizzativo e sociale, welfare aziendal, modelli di organizzazione del lavoro;
    2. quella dell’intervento sulle capacità relazionali, organizzative e personali che devono caratterizzare i comportamenti di chi è impegnato in questi progetti;
  • non è neanche secondario sviluppare un “lavoro culturale”, promosso da singole organizzazioni ma il più possibile in una logica di rete, articolato in seminari di apprendimento su questioni rilevanti; pubblicazioni; rassegne stampa ragionate ecc.;
  • non abbandonare la via legislativa privilegiando però, a nostro giudizio, una legislazione leggera e promozionale in grado di dare responsabilità e autorevolezza alle parti sociali.

 

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