La fabbrica del futuro e il mito del super-operaio.

Le fabbriche stanno cambiando e diventano più intelligenti, questo lo abbiamo capito. Ora è il momento di occuparci degli operai. La nebbia è fitta e il grosso del dibattito si è interessato finora del futuro dell’occupazione. Le ipotesi più pessimistiche, alla Andrew McAfee, ci hanno prospettato scenari in cui 702 tipi di lavoro, il 47% del totale sarebbero stati bruciati.

Quelle più ottimistiche hanno invece parlato di una distruzione creativa da cui usciranno nuovi lavori migliori dei precedenti. Ma se dal macro si sposta lo sguardo verso quel che succede a chi nelle fabbriche ci lavora, le ricerche si fanno più rare e le riflessioni più generiche. Fino ad alimentare dei falsi miti. Come quello che le gerarchie siano destinate a sparire, che gli operai si trasformino in nuovi lavoratori della conoscenza e che le loro abilità si sviluppino fino a farli diventare dei super-operai. La realtà è più complessa e per indagarla un gruppo eterogeneo composto da una giornalista, una sociologa dei media, un ricercatore sui temi del lavoro, un dirigente sindacale e un economista industriale si è messo in viaggio. Hanno visitato le scintille delle saldature e le personalizzazioni estreme dei cantieri navali di Fincantieri. Le gabbie con i robot nella fabbrica nuova di zecca della Maserati, a Grugliasco. La catena di montaggio della Ferrari. Hanno parlato con gli operai della Ducati, visto all’opera i visori in 3D utilizzati per progettare i treni dell’Alstom e le stampanti per l’additive manufacturing della Avio Aero. E molto altro, su e giù per il vecchio triangolo industriale italiano e poco oltre. Il risultato è stato descritto nel libro “Industria 4.0 – Uomini e macchine nella fabbrica digitale” (Guerini e Associati, 2016, 176 pagine, 18 euro), curato da Annalisa Magone e Tatiana Mazali.

Il risultato è una descrizione dettagliata e partecipata ma che non rinuncia a farsi delle domande. Due su tutte: il nuovo “blue collar” è più forte o più debole di prima? E con la necessità di trasformare le esperienze degli individui in informazioni replicabili, il nuovo operaio è più desiderabile per le aziende o più sostituibile?

A voler essere sintetici, le risposte sono che i nuovi operai sono sì “aumentati” nelle loro potenzialità ma non certo dotati di superpoteri. «Sanno di più ma sanno fare di meno», sintetizza Annalisa Magone, giornalista, presidente di Torino Nord Ovest, un centro di ricerca sul lavoro e l’innovazione e una delle due curatrici del volume assieme alla sociologa dei media Tatiana Mazali. I lavoratori sono, in altre parole, polivalenti e polifunzionali. Non si occupano più di un solo macchinario, né di una sola mansione. E cambiano spesso l’attività svolta. Tuttavia, hanno anche meno competenza specifiche sul funzionamento dei singoli macchinari. Non solo: la tecnologia tende a rendere meno importante la loro esperienza. È il caso dei sistemi a guida laser, che sostituiscono la mano esperta dei saldatori. Ed è il caso del montaggio dei treni: fino a qualche anno fa c’erano operai che costruivano il treno essenzialmente senza un disegno, «perché – si legge in una testimonianza dell’Alstom raccolta nel volume – l’operaio conosceva il treno, lo aveva sempre fatto e aveva ereditato una conoscenza. Possedeva la storia dei treni precedenti, dunque quando arrivava un nuovo ordine la parte di informazione mancante sapeva desumerla dalla propria esperienza professionale». Oggi, invece, scrive uno degli autori, il ricercatore Salvatore Cominu, «i supporti mediali che guidano il montaggio di un treno testimoniano una certa complessità delle operazioni: un lavoro meno parcellizzato, che presuppone quindi attenzione e adeguate informazioni, detenute dai tutor digitali prima che dagli operai». Qualcosa di simile succede, come raccontato da Linkiesta, nelle aziende dove ci sono dei proiettori a mostrare all’addetto cosa montare e dove, attraverso informazioni visuali di supporto.

Parte della conoscenza, quindi, passa dagli operai a chi ha la capacità di governare i sistemi e di codificare le informazioni. Una delle conseguenze è che i nuovi operai, invece di essere più preziosi perché specializzati, rischiano di diventare più generalisti. Ne sono un esempio i tempi di formazione, che si sono molto ridotti, anche solo a un mese. E questo perché di tali lavoratori si ha spesso necessità per impieghi temporanei, per assecondare i picchi della domanda. In altri termini il dubbio degli autori è che il nuovo lavoro sia – o possa essere – alla fine dequailficato. «L’immagine di un innalzamento collettivo delle competenze – si legge – che riguardi tutte le figure del lavoro attive nella fabbrica 4.0 è fuorviante».

Anche per questo spostamento di potere l’appiattimento delle gerarchie nelle fabbriche è più un mito che la realtà. Piuttosto, è il caso di parlare di una gerarchia diversa, basata sul “potere” generato dalla conoscenza, ovvero sul grado di autonomia e sul tipo di sapere richieste. Il fatto che nei reparti ci sia un’accresciuta interazione tra tecnologi e operai non significa che ci sia una relazione tra pari. «Al contrario – si legge – mette in evidenza la distanza tra le gerarchie di sapere, tra chi fornisce il processo e chi verifica che si svolga in modo conforme e senza intoppi». È un punto di vista che ridimensiona anche le riflessioni sulle capacità di problem solving affidate agli operai. «Quello dell’aumento o meno delle capacità di problem solving è una questione controversa», commenta Annalisa Magone.

Quello che è certo, invece, è che il lavoro cambia e che in questo cambiamento le cosiddette “soft skill” acquisiscono un’importanza centrale e non più di contorno. È il caso della “comunicazione”: «La differenza tra una fabbrica tayloristica e una 4.0 è che quest’ultima è una fabbrica comunicante» spiega Magone. Esiste un feedback costante relativo al funzionamento dei processi. Spesso è automatizzato (è la caratteristica principale dell’Internet delle cose applicato all’industria) ma alcuni compiti sono demandati agli uomini. Così gli operai che lavorano con il metodo “World Class Manufacturing” (Wcm), adottato da Fiat Chrysler, possono segnalare in continuazione le possibili anomalie. Le altre competenze richieste hanno tutte a che fare con la complessità. Ci sono quelle di tipo cognitivo, sollecitate quando si tratta di gestire molti macchinari e funzioni contemporaneamente. E c’è una terza “soft skill” che ha a che fare con il coinvolgimento degli operai nelle operazioni non più solo con le braccia e il tempo, ma con la testa e con il cuore. Se la complessità aumenta e problemi vanno risolti, non ci si può più come prima immaginare una separazione nettissima tra le otto ore lavorative e il resto della giornata.

L’enfasi sulle competenze soft fa parte degli aspetti positivi del cambiamento in atto nelle fabbriche, che si sommano ad ambienti di lavoro più salubri, più gradevoli esteticamente e certamente più sicuri che in passato. Qual è il bilancio da trarre? La risposta è ancora una volta un invito a guardare la realtà nel suo insieme. «Il complesso di queste riflessioni e le informazioni raccolte non significano che la transizione verso profilo di lavoro più ricchi e gratificanti sia solo una retorica» scrive Cominu. Rispetto al vecchio lavoro parcellizzato taylorista «il grado di polivalenza, il livello delle competenze di base possedute, il rapporto con le nuove tecnologie, la ricomposizione delle mansioni disegnano i contorni di un lavoro operaio modificato e per certi versi più desiderabile». C’è, tuttavia, una precisazione: «La qualità del lavoro non è un concetto unidimensionale, è fatta di aspetti ergonomici, ambientali, legati all’autonomia, al “potere“, alla ricchezza delle attività svolte, alle ricompense materiali. Alla luce di queste testimonianze sarebbe fuorviante considerare il nuovo “blue collar” un quasi-lavoratore della conoscenza. L’immagine di una crescita generale delle capacità e delle competenze riflette un auspicio più che un’evidenza empirica».

Tutte questioni di cui dovrebbe essere più consapevole il mondo sindacale. Non tanto, sottolinea Magone, a livello delle fabbriche, «dove i sindacati sono pragmatici», ma al livello delle confederazioni nazionali. Con delle differenze che vedono più attenta una sigla come la Fim, la quale è stata tra i finanziatori del volume. La sfida per i sindacati va al di là degli aspetti organizzativi, contrattuali e della formazione. Riguarda, conclude Annalisa Magone, l’impatto della nuova organizzazione territorio: a nuovi orari devono poter corrispondere nuovi servizi e alla nuova flessibilità un nuovo tipo di welfare.

(F. Patti, www.linkiesta.it, 30.04.2016)

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