Francesco Carlesi viene intervistato da La Voce del Patriota e ci racconta del suo ultimo volume, “L’Italia del miracolo”.
Francesco Carlesi, nato a Roma nel 1985, è Presidente dell’Istituto «Stato e Partecipazione», direttore editoriale della rivista “Partecipazione” e docente di Storia Contemporanea e Storia delle Relazioni Internazionali presso UniDolomiti e SSML “San Domenico”. Cultore della materia in Storia Contemporanea e dottore di ricerca in Studi Politici (La Sapienza). Ha scritto per le riviste scientifiche “Nuova Rivista Storica”, “Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale” e “Il Pensiero Storico”, oltre a numerose altre di approfondimento storico e politico come “Storia Rivista”. Ha scritto diversi libri, tra cui Craxi, l’ultimo statista italiano (2016), La Terza Via Italiana.
Storia di un modello sociale (2018), Mazzini, un italiano (2022) e Mussolini e Roosevelt (2022) e curato volumi quali L’Italia del Futuro (2020), Oltre la destra (2022) e L’Italia del miracolo (2023). Ha collaborato a decine di libri tra i quali: La sola ragione di vivere. D’Annunzio, la Carta del Carnaro e l’esercito liberatore (2020), Borgo Italia (2021), Destino Nazionale Vs Vincolo Europeo (2021), Le radici nascoste della Costituzione (2021), Tradizione Ecologica (2021), Comprendere il Novecento tra storia e scienze sociali (2021), La rivoluzione 4.0 (2022) e La Sfida partecipativa (2022).
Lei ha curato il volume, recentemente pubblicato, dal titolo: “L’Italia del miracolo”. A cosa si riferisce questo titolo e di cosa si parla nello specifico? Ma soprattutto, ad oggi, la politica può trarre spunto da quella storia e si può parlare di un qualche ‘miracolo’ in Italia?
Il titolo si riferisce all’Italia del miracolo economico, quella che usciva dal dramma della Seconda guerra mondiale e che riuscì a risollevarsi, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, grazie all’impegno e al sacrificio di tanti uomini e lavoratori. Tra questi, spiccarono alcune menti geniali, a cui il libro è dedicato, le quali contribuirono in maniera importante alla rinascita italiana. Si tratta di Enrico Mattei, Adriano Olivetti, Federico Caffè, Costantino Mortati, Donato Menichella, Felice Ippolito e Amintore Fanfani, descritti nei contributi di giornalisti e professori che ringrazio per aver accettato il mio invito a contribuire a questa impresa editoriale targata Istituto “Stato e Partecipazione” ed Eclettica edizioni. Grazie a questi imprenditori, politici e professori l’Italia si ritrovò all’inizio degli anni ’60 al vertice di quasi tutti i settori fondamentali dell’economia: energia, elettronica, chimica e nucleare ci vedevano al passo con le maggiori potenze internazionali, mentre il sistema economico “misto” seppe garantire uno sviluppo e una solidità testimoniata dall’Oscar alla lira del 1959. Chiaramente, si tratta di una stagione non priva di ombre e difficoltà, in primo luogo per la condizione di larghe fasce della popolazione (si pensi alla situazione operaia o alla povertà di alcune zone del Meridione), ma in cui si scorge una volontà di costruire, di innovare e un senso comunitario patriottico che oggi hanno ancora molto da dirci. In questo senso risulta difficile parlare di “miracolo” ai nostri giorni, che vedono sparire sempre più il senso del sacrificio e dell’approfondimento complesso sotto i colpi delle “semplificazioni” dei social e del vittimismo che sembra quasi essere la cifra di un’intera generazione.
Per rilanciare l’Italia, però, non sarebbe male ripartire dall’esempio degli uomini dell’Italia del miracolo e dalla loro capacità di dare vita a enti, intuizioni e modelli sociali all’avanguardia. Ecco perché la destra politica ha l’occasione di recuperare il lascito di uomini come Mattei e Olivetti e di riscoprire la sua vena sociale (quella di Giano Accame e Gaetano Rasi) arricchendola con la visione strategica di Fanfani o Mortati, nel preciso momento in cui la sinistra sembra aver perso tutto questo per dedicarsi quasi esclusivamente a questioni “di genere” o alla demonizzazione dei confini e delle identità nazionali. Nei contributi presenti il piglio scientifico e intellettualmente onesto si affianca spesso ad alcune considerazioni legate all’attualità, e d’altronde la lettura storica raramente può lasciare indifferenti ma spesso può servire da sprone per l’azione e il futuro.
Tra i vari personaggi analizzati c’è Costantino Mortati, tra i più autorevoli giuristi e costituzionalisti italiani del XX secolo. Oggi quanto è attuale il suo pensiero? E rispetto a quanto auspicato nel progetto costituzionale in termini di architettura del lavoro, cosa è rimasto?
Il pensiero di Mortati, che ho analizzato nel libro insieme a Gianluca Passera, ci ricorda alcuni elementi fondamentali, in primis la necessità che i diritti sociali siano concreti e non mere enunciazioni di principio. È un concetto che permea l’intero testo costituzionale, pensiamo solo all’articolo 3 che indica quale «compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Lo stesso indirizzo che si respira nella parte economica (artt. 35-47) dove si parla di funzione sociale della proprietà, disciplina pubblica del credito e partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Il disegno di Mortati, profondamente critico dell’individualismo e persino di alcuni limiti dei principi della Rivoluzione francese, mira a realizzare una comunità del lavoro che valorizzi i corpi intermedi in una cornice organica. Lo Stato viene descritto in toni quasi gentiliani, quale elemento capace di armonizzare le diverse individualità in uno sforzo che unisca il passato e il futuro della Nazione. Infine, rimane suggestiva la sua idea volta alla creazione di una seconda Camera delle categorie capace di dare voce al lavoro e all’economia reale, che nell’epoca della globalizzazione potrebbe essere ancora un’idea utile per arginare le derive della finanza, “il grande elettore nascosto” di cui parlava Accame. In Costituente, alla fine non si arrivò alla creazione di questa Camera ma del Cnel, che recentemente il governo ha giustamente coinvolto nello studio delle criticità nazionali e delle proposte per la ripresa economica.
Larga parte del progetto mortatiano però è rimasta lettera morta, anche perché la condizione di base per realizzarlo era la profonda responsabilizzazione degli industriali e dei sindacati, intesi quali motore della formazione professionale e della comunità nazionale e non enti di mera protesta e rivendicazione. Ad esempio, oggi la Cgil preferisce parlare di salario minimo invece che di applicazione dell’articolo 39 (riconoscimento giuridico del sindacato) e dell’articolo 46 (partecipazione dei lavoratori) che potrebbero inaugurare un serio sforzo di maturazione e collaborazione di classe salutare per tutto il tessuto sociale. Una recente proposta della Cisl ha riacceso il dibattito sulla partecipazione, che è una battaglia storica del sindacalismo nazionale Ugl e della destra italiana sin dai primi passi del Msi, che potrebbe finalmente trovare attuazione.
Passiamo ad una grande figura per la storia imprenditoriale italiana: Adriano Olivetti. Quale era il suo modello d’impresa? Potremmo ancora prendere spunto dal suo modello, per esempio quando si parla di transizione digitale?
«Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?»; queste affascinanti parole sintetizzano la visione di Olivetti. L’azienda rappresenta per lui una vera e propria comunità chiamata a valorizzare e far partecipare ogni singolo componente, nel tentativo di «creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo». Come disse Olivetti stesso, la sua impresa crede «nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora in eliminate tra capitale e lavoro».
Questa visione, descritta nel libro con passione da Fabio Mascioli, non frenò sviluppo e profitto ma li potenziò: l’imprenditore di Ivrea riuscì a coniugare valorizzazione di territorio, cultura, lavoro e innovazione ponendo la sua azienda ai vertici mondiali dell’elettronica, e da qui arriverà il primo “computer da tavolo” della storia. Olivetti creò anche un movimento politico basato sull’idea di comunità da sostituire a quella di partito politico, all’interno di un quadro federalista che valorizzasse le realtà locali. L’impresa favorì studi interdisciplinari che toccarono anche la sociologia, tanto che molti dei più importanti studiosi del dopoguerra passarono da lì, a cominciare da Franco Ferrarotti e Luciano Gallino.
Gli spunti da ricavare nell’epoca digitale sono dunque innumerevoli: il legame col territorio oggi sempre più necessario per ricostruire le filiere produttive; l’idea di lavoro intesa in chiave multidisciplinare e partecipativa; la spinta inarrestabile verso l’innovazione tecnologica, sempre più fondamentale, che lo portò ad attirarsi tanti imitatori e nemici fino agli Usa. La sua morte nel 1960 e quella del suo assistente Mario Tchou l’anno dopo portarono gradualmente allo “svuotamento” delle potenzialità sociali e internazionali di questa azienda che ha scritto la storia. Bisognerebbe pensare a un rilancio di questo modello per competere nel mondo dei chip, della robotica e dei cambiamenti digitali.
Altro tema attuale è quello della questione nucleare, sul quale si dibatte oramai da tempo. In Italia ricordiamo Felice Ippolito (ricordiamo anche che l’introduzione del volume in questione è a cura del Prof. Benedetto Ippolito, figlio di Felice, ndr), il cui obiettivo era proprio l’indipendenza energetica del paese. È possibile raggiungere questa indipendenza? E se sì, l’energia nucleare può essere una valida soluzione?
L’indipendenza totale è forse una chimera, una Nazione che vuole stare al mondo e nelle organizzazioni internazionali con forza e strategia può e deve però puntare al massimo possibile di autonomia energetica. L’alternativa, come abbiamo visto in tempi recenti, è di rimanere ostaggio dei fornitori. Oggi la “transizione energetica” e lo sganciamento dal gas russo rischia solamente di farci passare a una nuova dipendenza, quella nei confronti della Cina che domina sul piano di terre rare e batterie decisive per il cambio di paradigma. Gli Stati Uniti hanno reagito a questo con un ingente piano, quasi “autarchico”, di investimenti pubblici mentre l’Unione Europea tentenna.
Profondamente convinto della necessità dell’indipendenza energetica fu proprio Ippolito, il quale prese in mano nei primi anni ’50 il Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari facendone un volano di studi e sviluppo. L’Italia arrivò ad essere terzo produttore di energia derivante dal nucleare, oltre che un centro di eccellenza sul tema riconosciuto a livello mondiale proprio grazie all’ingegnere e geologo napoletano. Il suo sforzo si scontrò spesso contro la “partitocrazia” e le invidie dei contemporanei, tanto che inizialmente il suo Comitato avrebbe dovuto essere smantellato, una situazione simile a quella di Mattei con l’Agip. Alla fine il progetto di Ippolito fu colpito a morte da una serie di accuse politiche e di inchieste della magistratura che portarono al suo arresto nel 1964. Come emerge nel contributo di Luca Cupelli, questo passaggio ci è costato molto in termini energetici, e oggi si dovrebbe provare a riaprire un dibattito serio sul tema nucleare, per quanto il tempo perso pesa e non poco.
Nel caso Ippolito sembra quasi di vedere quel “vincolo interno” che ha frenato molto spesso la proiezione e l’indipendenza italiana. Protagonista quella magistratura che nel ’92 sarà decisiva per la fine della Prima repubblica con conseguente dismissione del patrimonio pubblico industriale italiano il quale, pur con tutte le sue criticità, aveva garantito lo sviluppo sociale tricolore.
La Prima Repubblica vide dei protagonisti senza precedenti dal punto di vista dell’economia e del lavoro, come ad esempio Federico Caffè, Amintore Fanfani e Donato Menichella. Tutte queste figure vengono analizzate nel suo libro. Il loro contributo può essere d’aiuto nell’immaginare il nuovo ruolo dello Stato nell’epoca della globalizzazione?
Federico Caffè, descritto nel libro da Claudio Freschi, è stato un economista keynesiano; Amintore Fanfani, illustrato da Filippo Burla, un protagonista politico della Democrazia Cristiana e infine Donato Menichella (contributo di Lorenzo Castellani) un tecnocrate dell’Iri e della Banca d’Italia. Sono figure complesse e importanti per approfondire il tema che sollevi: il ruolo dello Stato. Per Caffè, professore “di sinistra”, lo Stato è fondamentale per la costruzione di politiche che puntino alla piena occupazione e alla valorizzazione dell’intera società, non in chiave paternalistica ma di sviluppo. Fondamentale in maniera particolare per opporsi ai condizionamenti di quelli che definiva “gli incappucciati dell’alta finanza”. Da qui sorge anche la sua critica verso le modalità della costruzione europea e il “vincolo esterno” che colpiscono le specificità dei modelli nazionali rischiando di acuire le tensioni sociali. Una dinamica ancora oggetto di profonde polemiche e discussioni.
Anche per Fanfani lo Stato può essere strumento di modernizzazione, come dimostra con il Piano-Casa di fine anni ’40. Fanfani si batte in particolare per la valorizzazione del lavoro (è nota la sua influenza sul primo articolo della Costituzione «fondata sul lavoro») in un’ottica di programmazione di lungo periodo che ponga l’Italia al passo con le sfide internazionali. L’idea di piano è ancora all’ordine del giorno (si pensi al Pnrr) e non sarà facile riuscire a coordinare i “campioni nazionali” come Enel, Eni, Fs con i territori e le potenzialità della Nazione, come fecero i protagonisti del miracolo. Cresciuto nel dibattito corporativo degli anni ’30, Fanfani resterà sempre legato al tema della valorizzazione delle competenze, della responsabilizzazione delle categorie produttive e della partecipazione dei lavoratori, su cui scrisse Capitalismo, socialità, partecipazione nel 1976, quando il dibattito nazionale era dominato da idee di lotta di classe o dalla miopia dell’industria privata. Un tema, come abbiamo osservato parlando di Mortati, oggi più che mai all’ordine del giorno.
Da ultimo, Menichella rappresenta una generazione di tecnici che dall’Italia liberale arriva al secondo dopoguerra, passando per il fascismo che crea l’Iri nel 1933. Una generazione di uomini competenti che contribuiscono alla crescita della Nazione in un quadro di economia “mista” in cui lo Stato recita un ruolo importante. Come scrive Castellani, «Iri e Banca d’Italia sviluppano sotto la guida di Menichella un forte ufficio studi e riducono l’aleatorietà della politica, secondo una tendenza simile ad altre esperienze europee. Una tendenza che sarà spezzata definitivamente, alla fine del Ventesimo secolo, dalla crisi politica e dall’incapacità della classe dirigente italiana di gestire le dinamiche della globalizzazione. Il mondo dei Menichella è stato sepolto per sempre dalla fine del secolo, ma gli insegnamenti morali, etici e politici che se ne possono trarre resistono ancora oggi».
L’epoca della globalizzazione (in cui sempre più spesso guerre e scossoni a livello economico e sanitario hanno fatto parlare dell’avvio di una “de-globalizzazione”) insegna che lo Stato rimane un attore importante dei processi di autonomia e sviluppo, pur in contesti totalmente nuovi che impongono di pensare strategie futuristiche e di non negare ma “cavalcare” le innovazioni. Il tutto senza negare la necessità di accordi internazionali e del contesto europeo, ma facendone parte con un’identità forte e un’idea di sviluppo da qui a 50 anni.
Parliamo infine di Enrico Mattei, che ha, tra le altre cose, anche ispirato il ben noto Piano Mattei. Oltre alla sua visione innovativa e alla sua prospettiva internazionale, quali sono gli altri caratteri che hanno reso grande Mattei, tanto da far essere il suo ‘metodo di lavoro’ attuale decenni dopo?
Caratteristiche peculiari di Mattei sono state il decisionismo, l’entusiasmo e l’amor di Patria, che lo portò a sfidare i grandi potentati dell’epoca (a cominciare dalle cosiddette Sette sorelle) e a lottare contro «il complesso di inferiorità» degli italiani verso gli altri Paesi. Una lezione di cui abbiamo ancora profondamente bisogno, visto che è sempre più difficile ascoltare discorsi di fiducia e orgoglio nazionale a tanti livelli, a cominciare dalla cultura “ufficiale”.
Mattei, descritto nel libro da Stelio Fergola, era un imprenditore visionario e spregiudicato. Il suo coraggio lo portò a rifiutare la dismissione dell’Agip (sorto nel 1926) voluta dagli anglosassoni e da gran parte della politica nel dopoguerra, facendola diventare strumento di sviluppo e sfruttamento delle risorse interne fino alla creazione dell’Eni (1953). Ancora oggi, un ente decisivo per la proiezione mediterranea e globale della Nazione. L’Eni divenne un vero e proprio strumento di politica estera capace di andare ovunque e di esaltare la genialità e la competenza dei suoi tecnici, tanto da farne un modello sociale per i Paesi del cosiddetto “terzo mondo”. Il recupero di questo messaggio con il Piano Mattei da parte del governo è positivo, l’impegno verso l’Africa, sempre più teatro di ingerenze russe e cinesi, è vitale. Bisogna provare a tornare a recitare un ruolo culturale, commerciale e diplomatico per governare i processi migratori e gli scambi con tutte le realtà della zona. Per farlo a 360 gradi, però, servirà anche un po’ di quel coraggio che così tanto costò a Mattei…