Marcello Bianchi – Serve una legge per promuovere la democrazia economica?

Le posizioni espresse dalla CISL in occasione dell’ultimo congresso mostrano una chiara impostazione contrattualistica, coerente con la sua storia e i suoi valori fondativi. Viene ribadita la netta contrarietà a interventi legislativi sul salario e sulla rappresentanza, che minerebbero lo stesso ruolo del sindacato in una società pluralistica. Questo si basa proprio sull’autonomia contrattuale delle condizioni di lavoro, in primis i salari, e su un sistema di rappresentanza aperto alla competizione e al riconoscimento reciproco delle parti.

Si tratta di una posizione che rischia di risultare isolata rispetto alle altre confederazioni sindacali e al comune sentire dei partiti progressisti, dove domina la tentazione di rifugiarsi in un intervento risolutivo della legge per affrontare le sfide che l’evoluzione delle economie di mercato e le varie crisi pongono alle parti sociali. Anche il frequente richiamo all’opportunità di dare attuazione alle norme costituzionali sembra in realtà coprire una nostalgia per una visione organicista dello Stato, di cui le parti sociali diventano parti integranti, quasi “organi” dello Stato.

Non è questa la visione proposta solo alcuni mesi fa dal Presidente del Consiglio che, intervenendo all’assemblea di una delle principali parti sociali, la Confindustria, sollecitava una ripresa del sistema delle relazioni industriali per risollevarsi da quella “distruzione” che si è determinata a partire dalla fine degli anni ’60 (parole di Draghi). La diagnosi è chiara: tornare al sistema di relazioni industriali degli anni del boom economico vuol dire tornare a una fase in cui le indicazioni del dettato costituzionale avevano trovato, pur non senza contrasti e ripensamenti, una pragmatica applicazione in situazioni di fatto, con l’affermarsi di parti sociali che si legittimavano reciprocamente e di un’evoluzione continua delle pratiche e degli oggetti contrattuali, al di fuori di vincoli o protezioni legislative. Quell’appello, funzionale nelle intenzioni di Draghi a costruire “il pilastro dell’unità produttiva necessaria per affrontare le sfide dei prossimi anni”, è rimasto in gran parte inascoltato. Da subito, l’invito a rivitalizzare il sistema delle relazioni industriali, e quindi della contrattazione, è stato riassorbito in un anelito, ambiguo quanto inconcludente, verso un “patto sociale” che riecheggia piuttosto un modello concertativo centralizzato che fa perno sulle risorse pubbliche e sulle garanzie normative.

Invano lo stesso Draghi, sempre nell’intervento all’Assemblea della Confindustria, aveva cercato di disinnescare questa distorsione interpretativa: “Io cerco di non usare la parola patto, usavo la parola ‘una prospettiva economica condivisa’”. Differenza non sottile, perché chiariva che quello che Governo e parti sociali potevano fare insieme era creare le condizioni (“una prospettiva economica condivisa”) perché i patti potessero essere poi realizzati attraverso la contrattazione. Il problema è che l’appetibilità politica del patto sociale, con i suoi rituali pubblici, sopravanzava ampiamente la “fatica” di una pratica contrattuale diffusa, fuori dai riflettori. Non stupisce che oggi la prospettiva del patto sociale sia considerata “naufragata” dai suoi stessi proponenti, e non ci sarebbe da dolersene se questo non alimentasse un rilancio delle sue ambizioni nella forma dell’appello diretto ad interventi del Governo e del legislatore.

Una tentazione cui purtroppo non sfugge la stessa CISL che, nel rivendicare giustamente l’esigenza di una maggiore democrazia economica, annuncia, non l’avvio di una battaglia contrattuale, ma una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare. Anche in questo caso, non si resiste alla tentazione di strattonare la Costituzione: “i tempi sono maturi anche per una legge di sostegno che promuova forme di vera cogestione, come previsto dall’articolo 46 della Costituzione”.

La visione organicista, cacciata dalla porta per salari e rappresentanza, rientra dalla finestra per la partecipazione. Peraltro, la presentazione di proposte di legge su questo tema non è certamente nuova. In ogni legislatura sono stati presentati diversi disegni di legge volti a dare una cornice normativa alla partecipazione (attualmente ci sono ben cinque proposte che giacciono inermi presso le Commissioni riunite Finanze e Lavoro pubblico della Camera). Nessuna di queste proposte ha avuto un percorso significativo, indicando che rispondevano soprattutto a una funzione di “testimonianza” piuttosto che a una vera iniziativa politica.

In realtà, nulla nel quadro normativo attuale impedisce che si sperimentino forme di partecipazione dei lavoratori che includano anche la presenza di loro rappresentanti nel consiglio di amministrazione, l’obiettivo che dovrebbe porsi l’eventuale legge di sostegno.

Ne hanno scritto recentemente due illustri giuristi, Piergaetano Marchetti e Marco Ventoruzzo, in un articolo su Lavoce.info. Il titolo di un paragrafo del loro intervento chiarisce la questione: “non serve una norma per aprire alla partecipazione dei lavoratori”. La strada da loro indicata ipotizza l’esplicita previsione di questa possibilità nello statuto della società.

In realtà altre strade sono ugualmente percorribili, a quadro normativo dato, ad esempio contrattando con i soggetti che presentano la lista di maggioranza (l’azionista di controllo o il consiglio uscente) l’inclusione in questa lista di uno o più rappresentanti indicati dai lavoratori. Ancora più agevole è il percorso per favorire la partecipazione dei lavoratori che siano anche azionisti della società. Gli statuti di alcune società, ad esempio BPM, prevedono già per i lavoratori azionisti alcune misure che ne favoriscono la partecipazione agli organi sociali: quorum ridotti per presentare una lista di candidati per il consiglio di amministrazione, rispetto a quanto previsto per gli altri azionisti (nel caso di BPM il quorum è dell’1% del capitale per i soci e lo 0,12% per i soci lavoratori) e una garanzia di nomina per almeno un candidato presentato dai lavoratori azionisti (a condizione di aver ricevuto almeno un voto).

Il problema, ma a parere di scrive anche il vantaggio, di perseguire queste strade in assenza di una disciplina normativa è che la partecipazione andrebbe contrattata con la singola società, per ottenere uno statuto favorevole o per fare un accordo con chi presenta la lista di maggioranza. Non sarebbe questo un modo per dare una base reale alla partecipazione, inserendola in una strategia negoziale complessiva a livello di singola società, che impegna sia i lavoratori sia la società? Invece di invocare la tutela dell’ennesimo “diritto, si tratterebbe di far valere una “pretesa” la cui fondatezza e utilità andrebbero dimostrate in primis ai lavoratori stessi, assumendo un valore ben maggiore di una “garanzia” calata dall’alto.

(ISRIL)

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