Parti sociali in cerca di intesa per riformare il modello contrattuale.

Sul modello contrattuale Confindustria, Cgil, Cisl e Uil cercano un’intesa. L’attuale sistema (scaduto alla fine dello scorso anno) che aggancia gli aumenti del contratto nazionale all’inflazione, o meglio all’indicatore Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato al netto degli energetici importati), ha fatto il suo tempo, non essendo più in grado di garantire ai lavoratori incremenenti consistenti.

Nel vertice di ieri hanno ragionato di contratti, attuazione delle regole sulla rappresentanza e salario minimo. Il tempo stringe: il governo ha deciso di non esercitare la delega sul salario minimo contenuta nel Jobs act per dare tempo alle parti sociali di raggiungere un’intesa più ampia sulla riforma del modello contrattuale che sposti il baricentro sulla contrattazione decentrata (aziendale o territoriale), sull’attuazione delle nuove regole sulla rappresentanza e sulla partecipazione dei lavoratori all’impresa. Palazzo Chigi ha dato alle parti sociali tempo fino all’autunno per presentarsi con una proposta, con l’intenzione di dare risposte concrete con la legge di stabilità, che si occuperà anche di fisco e lavoro. Un accordo tra le parti che valorizzi la contrattazione aziendale potrebbe spingere il governo a mettere ingenti risorse a sostegno della detassazione del salario di produttività, a vantaggio di lavoratori e imprese. In assenza di un accordo, comunque, il governo è intenzionato ad intervenire ugualmente sulla materia per via legislativa. Di qui il tentativo di trovare un’intesa entro il mese. Sulla rappresentanza resta da sciogliere il nodo del Cnel: doveva raccogliere i dati relativi alle elezioni delle Rsu e ponderarli con quelli degli iscritti a ciascuna sigla inviati dall’Inps. Ma con l’abolizione del Cnel alle porte, si cerca un’alternativa; si sta ragionando sul coinvolgimento dell’Aran. Quanto al modello contrattuale, Confindustria a maggio 2014 ha elaborato una proposta che punta a completare il «percorso della derogabilità dei contratti nazionali ad opera della contrattazione collettiva aziendale» in un quadro di «regole certe fissate dai Ccnl». Secondo la proposta di Confindustria nei contratti nazionali vanno individuate soluzioni che tengano conto delle peculiarità dei diversi settori, consentendo alle imprese che hanno la contrattazione aziendale di negoziare solo incrementi retributivi collegati ai risultati aziendali, senza riconoscere gli aumenti dei Ccnl. Per le imprese dove non si fa la contrattazione aziendale, Confindustria propone che si possa optare, secondo le previsioni dei contratti nazionali, tra l’applicazione degli aumenti economici da essi previsti o l’attuazione di schemi retributivi da adattare ai risultati aziendali. Tra i sindacati, tuttavia, la Cgil frena. Prima di riformare il modello Camusso considera prioritaria la chiusura della tornata di contratti in scadenza, anche in assenza di un nuovo indicatore di riferimento per gli aumenti del contratto nazionale. La Cisl, al contrario, preme per raggiungere presto un’intesa, nella convinzione che da un nuovo modello che potenzi la contrattazione aziendale possano trarne vantaggio i lavoratori e le imprese. La Cisl teme un intervento a gamba tesa del governo su temi propri delle parti sociali. Anche la Uil intende cogliere la sfida ed ha presentato una proposta per parametrare gli aumenti del contratto nazionale all’andamento del Pil.

(G. Pogliotti, Il Sole 24 Ore, 09.07.2015)

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