Slow Finance – Per un nuovo mutualismo

La chiamano «gig economy». È un settore produttivo in espansione legato alla fornitura di servizi. Si basa sul comandamento che recita: «Lavora quando servi». Prolifera sulla fine della prestazione d’opera continuativa ed è alimentato da un esercito di lavoratori “in proprio”, la cui attività si riferisce a un tempo saltuario, breve, intermittente.   

Alle schiere dei gig workers appartengono autisti privati e corrieri, i riders di Foodora o i lavoratori di Uber, per fare qualche esempio. A regolare lo scambio all’insegna dell’on-demand, provvedono specifiche applicazioni o piattaforme proprietarie. Algoritmi in veste di caporali digitali regolano i flussi di forza lavoro sulle piazze invisibili della rete telematica. La gig economy prolifera al riparo di una fitta cortina di “equivoci” o – meglio – di finzioni. Partecipa dell’aura innovativa e tecnologica della cosiddetta “economia della condivisione”, anche se non c’è nulla di comune o condiviso nella consegna di un pasto a domicilio. Assimila i lavoratori allo stato di piccoli imprenditori, sospingendoli fuori dall’ambito di diritti e tutele che dovrebbero competere ai workers, e occultando il fatto che le condizioni della prestazione d’opera sono fissate dall’algoritmo. Così tra una consegna e l’altra, tra un passaggio e un ennesimo cliente a portata di clic, non esiste salario minimo né protezione sociale di sorta.

Già al centro di accese polemiche e di alcune azioni in sede giudiziaria promosse da gruppi di lavoratori (tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra),  l’«uberizzazione del lavoro» deve fare i conti con una nuova risposta: cooperativa e di autorganizzazione.

Se dietro il modello della “condivisione” e della “libera socializzazione” di un autista privato a portata di smartphone, si nasconde l’inganno, ovvero la ben nota realtà della precarizzazione tout court del lavoro, ora c’è una società mutualistica, un’impresa di economia sociale che garantisce per quelli che non sono più dipendenti subordinati ma lavoratori presentati in veste d’imprenditori.

Si chiama “Smart”, è ancora un esperimento, ma può rappresentare una sfida interessante alla “gig economy”.

Questa è la sua forza: con gli algoritmi impiegati come arieti per disarticolare il quadro normativo e la cornice giuridica della prestazione d’opera, l’accesso ai diritti del lavoro e al welfare diventa sempre più proibitivo. Così, è a quest’altezza che si inserisce una realtà collettiva che promette davvero bene e che va sostenuta, da gennaio la più grande cooperativa continentale di lavoratori self employed.

I soci che la compongono partecipano a un fondo comune per assicurare la retribuzione in caso di perdita di lavoro o diminuzione dei compensi. Ma non solo.

Come ha scritto il manifesto, Smart «oggi conta 75 mila soci, 12 sedi in Belgio e nove società gemelle in altrettanti stati europei: Francia, Svezia, Italia, Spagna, Germania, Olanda, Austria, Ungheria». Allo sfruttamento dei laboratori dell’economia del “lavoretto” come Foodora, quelli del «ciò che mio è tuo», i ciclofattorini – che ne costituiscono la macchina operosa – hanno dato vita a una vera e propria alternativa. È successo in Belgio il 26 luglio scorso, quando è fallita Take Eat Easy, la gemella di Foodora in versione franco-fiamminga. I bikers si erano auto-organizzati. In 434 erano già soci di “Smart”: grazie al fondo comune, i ciclofattorini hanno beneficiato di una protezione, di una copertura di oneri sociali corrispondente a 340mila euro, che altrimenti gli sarebbe stata negata.   

Nata per operare nella celebre “zona grigia” compresa tra lavoro dipendente e impresa old style e rivolta all’auto-organizzazione dei lavori atipici, “Smart” costituisce un esempio positivo di sharing economy, non limitandosi a intervenire nei momenti di crisi – come nel caso di Take Eat Easy –, ma articolando un modello alternativo basato sulla corresponsione ai soci di uno stipendio versato mensilmente, sull’assunzione del rischio di ritardo nei pagamenti dei diversi committenti o sulla condivisione della medesima partita IVA. Il tutto in cambio di una quota del fatturato dei soci per alimentare la “cassa comune” della cooperativa, che non ha scopi di lucro e che reinveste a fini sociali le eventuali plusvalenze. In questo, “Smart” prova ad articolare una risposta su base mutualistica alla discontinuità, all’intermittenza e alla precarietà che caratterizzano larga parte del lavoro non dipendente. L’esperienza in oggetto pone al centro del dibattito il tema cruciale delle forme di organizzazione dei soggetti sociali, evocando – in un gioco sottile di corsi e ricorsi – le antiche pratiche del movimento cooperativo.

Posta su una “singolarità” che intreccia piani temporali diversi, l’economia degli algoritmi (sia nella sua variante gig sia in quella sharing) mischia arcaismo e frontiera dell’innovazione, caporalato 2.0 e applicazioni digitali. Paragonato a una nuova rivoluzione industriale capace di liberare un processo di violenta accumulazione originaria, das Kapital al tempo delle piattaforme sublima – e santifica sull’altare dei chip o dei codici sorgente proprietari –, la centralità dell’individuo-azienda già affermata all’alba degli anni Ottanta dalla Rivoluzione conservatrice contro tutto ciò che è comune, sociale, davvero condiviso. Flessibilità, precarietà, mancanza di protezione sociale, assenza di certezze, disconoscimento della stessa dimensione lavorativa sono diventate condizioni diffuse per soggetti altamente mobili e precari.

Nel latifondo digitale, il lavoro ricorda sempre di più gli antichi braccianti che, al contrario dei mezzadri legati alla terra, cambiavano di continuo occupazione rispondendo alla chiamata.

Le pratiche cooperative, neo-mutualistiche e di aiuto reciproco, possono rappresentare una significativa risposta dal basso al mantra dell’individualismo e un embrionale tentativo di organizzazione del lavoro. «Divisi siamo canaglia, insieme siamo tutto», diceva Camillo Prampolini.

(www.idiavoli.com, 15.11.2016)

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