“Unions for all”: così rinasce il sindacato americano (in stile europeo).

Se c’è una cosa per cui gli Stati Uniti non sono famosi, sono i sindacati. E in effetti un motivo c’è. Se a metà degli anni ’50 un terzo degli americani era iscritto a un sindacato, oggi questa quota si è ridotta al 10,5%, di cui il 6,4% sono lavoratori del settore privato. Un declino preoccupante, peggiorato dalla recente abolizione, da parte della Corte suprema statunitense, delle spese di iscrizione a queste associazioni da parte dei lavoratori: secondo la giustizia americana, infatti, l’idea di far pagare una imposta a quelli che, di fatto, sono riconosciuti come degli attori politici, sarebbe contraria alla Costituzione.

Naturalmente, però, l’impatto di questa drastica riduzione nelle iscrizioni non si riflette solo sulle entrate dei sindacati. Secondo le statistiche, mentre i lavoratori che fanno parte di un sindacato godono di stipendi mediamente più alti, di migliori benefit e di più solide possibilità di ricorso in caso siano trattati ingiustamente, d’altra parte il calo delle iscrizioni sarebbe invece per buona parte responsabile dell’aumento delle disuguaglianze sociali all’interno della società americana, così come del drastico crollo di affluenza alle elezioni da parte dei lavoratori a più basso reddito. Un fenomeno che accentua così l’esclusione dei lavoratori da qualsiasi genere di arena (e decisione) politica.

Ma come funzionano i sindacati negli Usa? Ad oggi, il sistema sindacale americano è strutturato su base aziendale, dove i dipendenti stessi (almeno il 30%) firmano petizioni per potersi organizzare in una “union”. I limiti di questo genere di struttura sono evidenti: rappresentatività limitata, diritti e benefit variabili a seconda dell’azienda in cui si lavora, e crescita scarsa (statisticamente, la presenza del sindacato all’interno dell’azienda comporta costi più alti per il datore di lavoro, che quindi assume meno persone). L’impianto prende il nome di “enterprise-level bargaining”.

In Europa, la situazione è invece da sempre molto diversa, a partire dal fatto che praticamente in tutti gli Stati europei i sindacati rappresentano percentuali di lavoratori molto più alte rispetto agli Stati Uniti. In Danimarca, Svezia e Finlandia, nel 2013 più di due terzi dei lavoratori appartenevano a un sindacato. In Francia e in Austria, poi, il 98% dei lavoratori rientra in un contratto collettivo nazionale. La rappresentanza dei sindacati esula dalle singole aziende, ergendosi invece a tutela dell’intera categoria. Questo approccio, che comporta che i sindacati negozino dei contratti nazionali, richiedendo quindi che i salari e i benefit dei lavoratori di una stessa industria siano gli stessi per tutti, si chiama “sectoral bargaining”.

Posto che il modello europeo di rappresentanza dei lavoratori funziona molto meglio, negli Usa fortunatamente più di qualcuno si è reso conto della necessità di un cambiamento: così, al suon di “Unions for all”, candidati come Bernie Sanders e Beto O’Rourke hanno dichiarato il proprio sostegno a un’organizzazione sindacale che non sia interna alle imprese, ma su scala nazionale. Il passaggio da un cosiddetto “enterprise-level bargaining” a un “sectoral bargaining”, infatti, porterebbe vantaggi a tutti. Ed è proprio quello che è successo a New York, dove i lavoratori dei fast food si sono coalizzati in una “commissione salariale” per richiedere uno stipendio minimo di 15 dollari l’ora. Alcuni stati americani, come la California, il New Jersey e il Colorado hanno già schemi simili nel proprio sistema legislativo, mentre altri invece li prevedono solo per categorie particolari, come i minorenni.

Ma c’è di più. Perché per riconquistare una rappresentatività degna di essere chiamata tale, secondo gli esperti i sindacati negli Usa dovrebbero abbracciare nuove iniziative come i consigli dei lavoratori, dove speciali commissioni elette si farebbero carico della difesa dei diritti degli stipendiati e della risoluzione delle controversie con l’amministrazione nelle singole aziende, oppure processi di elezione di propri rappresentanti all’interno dei consigli direttivi aziendali. C’è già chi ha progetti chiari su scala nazionale: un esempio è quello del Center for American Progress’s Madland, che propone l’istituzione di commissioni salariali per ciascun settore industriale.

Il passaggio al sistema europeo e la presenza di contratti nazionali, però, di per sé non sarebbero sufficienti a garantire che i diritti dei lavoratori siano rispettati a pieno (anche perché la presenza di contratti sindacali per tutti, membri dei sindacati e non, non incentiverebbe l’iscrizione al sindacato). Per promuovere l’adesione alle “union”, quindi, servirebbe un passo ulteriore: l’adozione del “sistema di Ghent”, dal nome della cittadina belga che l’ha introdotto per prima, e che ora sta alla base dei già citati esempi di Finlandia, Svezia e Danimarca. Questo consisterebbe nella gestione, da parte del sindacato, dei sussidi di disoccupazione in maniera integrativa allo Stato: tutti avrebbero diritto a ricevere una forma di tutela, ma i membri di un sindacato avrebbero diritto a maggiori benefici. Con un sistema simile, si prevede che la percentuale di aderenti ai sindacati negli Stati Uniti ritornerebbe facilmente almeno al 30%.

Di più: secondo la proposta di Rolf, il presidente del Seiu, un sindacato di Seattle, se i sindacati prendessero in carico anche i fondi (versati dai datori di lavoro) per le ferie, i permessi per motivi di salute e assicurazione sanitaria dei lavoratori, si potrebbero tutelare anche i “lavoratori a metà” di aziende come Uber e simili, dando la possibilità di godere di benefit “mobili” tra un impiego e l’altro. Si tratterebbe di una novità inedita e profondamente trasformante della concezione del lavoro (negli Stati Uniti e non solo, in verità).

Negli Usa, forse è ancora prematuro e difficile pensare a stravolgimenti di questa entità, soprattutto finché la legislatura repubblicana sarà in vigore. Ma l’avvicinarsi delle elezioni riapre i giochi in una serie di direzioni, lavoro compreso. Molti candidati stanno facendo del lavoro una delle proprie leve chiave in campagna elettorale: che sia l’avvento di una nuova fase?

(Morning FUTURE)

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