Lavoro. Se la Cgil scopre la cogestione alla tedesca, che studi finanzia la Fondazione An?

Mentre siamo infervorati attorno a documenti identificati dall’età anagrafica dei firmatari, mentre ci chiediamo quale possa essere il futuro della destra culturale, prepolitica e quindi politica italiana, incredibilmente perdiamo di vista mutamenti epocali.

La scorsa settimana su un tema centrale che coinvolge economia, occupazione, lavoro, o meglio modelli di organizzazione del lavoro è avvenuto un cataclisma.Confindustria per il tramite del presidente Squinzi ha accennato alla possibilità di collegare i salari alla produttività. La Cgil (non la Uil o la Cisl ma la Cgil!) per bocca di Susanna Camusso, ha rilanciato, invocando l’art. 46 della Costituzione e il modello tedesco della codeterminazione.

Le due principali organizzazione del capitale e del lavoro, che hanno sempre rifiutato ogni modello di collaborazione  e di partecipazione perché inammissibile teoria fascista, si annusano e rilanciano su un tema che da sempre appartiene alla cultura della destra italiana, che da sempre contraddistingue la destra italiana. In altre parole si impone finalmente il modello della partecipazione che per noi è sempre stato segno di civiltà, prima ancora che strumento per competere sui mercati globali, perché concilia capitale e lavoro, nazione e società.

Possibile che da questo dibattito possa essere assente la Destra Italiana che – irriducibile alle destre banalmente conservatrici europee – ha nel suo dna proprio il modello partecipativo in economia? Possibile che noi che, in splendida ed orgogliosa solitudine, abbiamo sempre presentato il progetto di legge della partecipazione non ci accorgiamo dei segnali di una società che cambia e introduce temi nostri?

La terribile crisi economica, l’incapacità dello Stato di intervenire per offrire protezioni e la comune sofferenza di lavoratori e datori di lavoro, le sfide della globalizzazione hanno cambiato profondamente il mondo del lavoro e delle relazioni sindacali e la apertura congiunta di Confindustria e CGIL all’eresia partecipativa ne è la più eloquente testimonianza.  Le dinamiche conflittuali hanno lasciato, dunque e finalmente, il posto ad una possibile visione comunitaria? Non lo so, non lo sappiamo, ma i segnali ci sono.

Il mondo del lavoro reale sa che le ricette di Renzi, oltre a precarizzare l’esistenza di tutti, non sono sufficienti per competere sul mercato globale. Il mondo del lavoro sa che non possiamo – per competere – fare la guerra sul costo del lavoro a certe economie postsocialiste che coniugano iperliberismo ed autoritarismo in un mix disumano e degradante: sino ad oggi abbiamo rincorso i cinesi perché il costo orario del lavoro in Italia non fosse 10 volte superiore, è tempo di immaginare che dentro a quell’ora ci sia un contenuto di intelligenza, di esperienza, di professionalità e di militanza molto più alto. Pare che Confindustria lo abbia compreso, pare che la CGIL si sia arresa alla fine dell’era della lotta di classe. Noi, da sempre, abbiamo portato avanti la più romantica, poetica, competitiva eresia economica: la partecipazione.

Ora questa poesia inizia a fiorire sulle labbra dei nostri avversari e noi siamo drammaticamente assenti da questo dibattito… In compenso sappiamo tutto di trasformazioni societarie e di diritto in tema di fondazioni…

Coniugare flessibilità con un maggiore coinvolgimento nelle scelte dell’impresa è sempre stato patrimonio della cultura di destra, partendo dal presupposto che quanto più un lavoratore sarà partecipe delle strategie aziendali e degli utili della stessa, tanto più sarà disposto a rinunciare ad un sistema di garanzie rigide, interpretando sempre più l’impresa come una comunità di valori di cui è il primo protagonista.

L’Italia, nella sua insopprimibile vocazione industriale, deve recuperare competitività non rivedendo al ribasso i salari, ma valorizzando professionalità e saperi per il tramite del coinvolgimento dei lavoratori nella impresa. Ma v’è di più: l’impresa partecipata non dismette le catene industriali e gli investimenti per garantire immediati vantaggi agli investitori anonimi di un sistema finanziario che ha smarrito la sua funzione ancellare rispetto al mondo dell’economia reale.

L’impresa partecipata vince perché coniuga e concilia capitale e lavoro, eccita gli animi, costruisce una comunità. L’impresa partecipata vince perché contiene una fagocitante finanziarizzazione che uccide i tempi di investimento per la voracità di investitori anonimi e per la cecità di manager apolidi che mirano solo a aumentare gli utili con i ritmi serrati della finanza inconciliabili con i tempi degli investimenti industriali. La partecipazione agli utili e alla gestione dell’impresa significa “rubare l’anima ai lavoratori”, coinvolgerli nelle ragioni dell’impresa, portarli al governo dell’impresa, dove lo scambio non è più al ribasso, non è più salari più bassi e assunzione, ma è uno scambio di più alta tensione morale e strategica: responsabilità vera di governo dell’impresa da un lato e dall’altro liberazione ed eccitazione di energie etiche, intellettuali, cognitive.

Questa è la battaglia per il radicamento industriale contro il depauperamento e la dismissioni delle catene industriali soffocate dall’avidità della finanza che, per eterogenesi dei fini, da ancella dell’impresa ne è diventata il boia. Questa è la nostra irrinunciabile poesia economica nazionale. Eppure siamo assenti da questo dibattito.

Faccio una proposta modesta. Mentre i quarantenni studiano se, come e quando utilizzare politicamente i fondi della Fondazione A.N., è possibile immaginare che la stessa sia incaricata di produrre studi di economia comparata sulla partecipazione?  E’ possibile che la Fondazione A.N. studi seriamente il tema più affascinante e caratterizzante della destra italiana?  E’ possibile che la Fondazione A.N. finanzi e organizzi convegni sul tema?  E’ possibile che la destra ritrovi centralità in un  tema – quello dell’economia reale contro la finanza, dell’industria contro la depauperazione industriale,  della occupazione contro la delocalizzazione – che coinvolge il nostro modello di sviluppo, il nostro livello di benessere ed il nostro futuro? Ma soprattutto è possibile affermare che così ritroviamo la nostra identità prima ancora che tentando di scimmiottare Salvini, la versione caricaturale di una destra moderata con il manganello in mano, senza nessuna capacità di comprensione della complessità della modernità e senza nessuna idea di come indirizzare e governare la complessa modernità? Io credo di sì. Questa battaglia in Fondazione A.N. mi appassionerebbe e vorrei proprio sapere chi possa sostenere che questo significhi ‘musealizzare’ la fondazione.

 

(A. Delmastro, www.barbadillo.it, 21.09.2015)

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