Da Olivetti al capitalismo delle piattaforme.

C’era una volta, in un tempo che oggi sembra lontano lontano, un capitalista (e un capitalismo) dal volto umano e soprattutto umanistico. E che, diversamente dai neoliberali di oggi, non voleva trasformare la società in mercato, la vita in concorrenza di tutti contro tutti e ciascuno in mero imprenditore di se stesso. Un capitalista che certo aveva come suo baricentro l’impresa, ma un’impresa che si poneva al servizio della comunità e degli uomini e che voleva perfino democratizzare se stessa conferendo ai lavoratori e alle istituzioni del territorio la proprietà o la partecipazione alla gestione dell’impresa stessa.

Un capitalista diventato per alcuni un mito e in parte certamente lo era (in verità i miti sono sempre pericolosi perché raccontano una verità che non sempre è la verità). Un mito, allora e forse, di nome Adriano Olivetti. Su cui torniamo grazie a un libro scritto da Alberto Saibene – L’Italia di Adriano Olivetti – diviso sapientemente tra storia d’impresa e storia culturale, tra biografia personale e biografia della nazione di quegli anni.

Olivetti, dunque: amato da una minoranza di intellettuali; disamato dagli altri imprenditori (perché troppo anticipatore del futuro o perché troppo diverso dal modello standard); disamato anche (con qualche ragione, a onore del vero) da parte di certa sinistra perché la sua proposta di comunità sembrava contraddire la lotta di classe volendo costruire invece una comunità quasi olistica/organicistica (ma Olivetti rispettava il conflitto e non licenziò il sovversivo Franco Fortini quando lo scontro tra i due si fece durissimo), anche se ad alta e forse autentica partecipazione e coinvolgimento; disamato pure dalla chiesa e dal cattolicesimo perché Olivetti dava molto peso ai valori spirituali, lui laico e fautore di una società laica (contribuì alla nascita dell’Espresso), convertito al cattolicesimo e figlio di un ebreo e di una valdese. E poi Olivetti uomo di cultura, politico, filosofo di una nuova politica (il Movimento Comunità) e urbanista. La sua Olivetti fu scuola della migliore intellettualità italiana del secondo dopoguerra. Ci ricordava anni fa Francesco Novara, ai tempi giovane psicologo del lavoro, che la Olivetti di Adriano era una comunità di spiriti liberi, la Ibm era invece una comunità di monaci mentre la Fiat era organizzata come una caserma. Le differenze sono sostanziali.

Un mito, forse, Adriano Olivetti; certamente un uomo particolare, con tutti i suoi pregi (per noi il suo welfare, che non era certo vecchio paternalismo ma modernissimo servizio sociale) e difetti (trasformò il mondo della pubblicità e della comunicazione aziendale e creò l’idea di quella che sarebbe divenuta la corporate identity). Un modello forse non riproponibile oggi come tale, ma molto da invidiare e da studiare. Un imprenditore aperto all’innovazione, Olivetti; alla creatività e all’eterodossia; ma chissà cosa direbbe oggi di ciò che l’informatica – nata, appunto anche in Olivetti – ha prodotto in termini di trasformazione sociale (e noi vogliamo immaginare che ne sarebbe fortemente critico); oggi che dal suo quasi-capitalismo dal volto umano dove si produceva valore anche per la società, siamo arrivati al capitalismo disumano delle piattaforme tecnologiche e degli algoritmi , che estrae valore dalla vita della società e degli individui, sfruttando società e individui.

Capitalismo delle piattaforme allora; cui dedica un libro breve ma molto riflessivo e intelligentemente critico, Benedetto Vecchi. Amazon, Google, Facebook, ma anche Airbnb e Uber e poi la logistica sono piattaforme digitali e sono oggi i veri mezzi di produzione dell’economia capitalistica in rete e via rete. Si presentano retoricamente come economia della condivisione e quindi di una orizzontalità sociale virtuosa, in realtà sono verticali e verticalizzanti (nonché produttrici di alienazione). Piattaforme, scrive Vecchi, che sono ormai l’espressione di un nuovo capitalismo che certo non è il postcapitalismo di Paul Mason (cui Vecchi dedica una critica assolutamente condivisibile), che è invece oligarchico e oligopolistico se non monopolistico. E che ha nella finanza il necessario dispositivo di governance dei flussi di dati, merci e informazioni che sono oggi la materia prima di questo capitalismo appunto delle piattaforme e degli algoritmi e dove algoritmico si fa anche il management delle risorse umane. Piattaforme con le quali il lavoro si individualizza ed esternalizza sempre di più, facendosi on demand e insieme auto-attivato – e sembra davvero il vecchio modello della fabbrica a sei zeri della Toyota, a sua volta perfezionamento, e non superamento del fordismo-taylorismo, ma trasferito in rete. Perché questo capitalismo ha le sue tecniche di nuova organizzazione scientifica del lavoro (il taylorismo digitale), non è vero che sono cancellate le gerarchie e la massima retorica della condivisione e della conoscenza convive (senza contraddirla, nonostante l’evidenza della contraddizione) con la precarizzazione del lavoro e lo sfruttamento delle competenze, chiamando però tutto questo: innovazione.

Scrive Vecchi: «Il divenire storico scandito da espressioni come sharing economy, capitalismo cognitivo, gig economy non indica nessuna qualità auspicabile della vita in comune, nonostante il mantra sul libero mercato e l’individuo proprietario che ha accompagnato, negli ultimi decenni, ogni tappa dello sviluppo economico come un progressivo e lineare avvicinamento alla Terra promessa. Segnala, semmai, e all’opposto di quanto sostengono i think tank del capitalismo contemporaneo, un processo globale di trasformazione del modo di produrre le condizioni dell’esistenza umana e le relazioni sociali che presenta i tratti di una controriforma, meglio di una controrivoluzione globale volta a sottomettere la natura umana alle regole auree dell’accumulazione capitalistica. […] Dove il linguaggio, i sentimenti, le capacità cognitive […] sono gli elementi attorno ai quali i rapporti sociali di produzione capitalistici costruiscono il proprio potere di estrazione della ricchezza». Perché il capitalismo contemporaneo è ambivalente. Da un lato si legittima come naturale modo di produzione, al quale bisogna solo adattarsi, offrendo agli uomini la promessa di una vita buona; dall’altro, esprime la sua violenza sia con la guerra «che con dispositivi governamentali, nei quali la cooptazione e la chiusura di spazi di libertà marciano insieme. È questa costruzione di una seconda natura umana a immagine del capitalismo il primo nemico che il pensiero critico deve combattere». Quindi, ciò che davvero serve, continua Vecchi «è la capacità politica e sociale di agire globalmente contro i centri di potere politico ed economico, producendo forme di autorganizzazione locale, laddove cioè la sharing economy accentua la precarietà e apre le porte, grazie proprio alla Rete, alla formazione di imprese monopolistiche». Proprio oggi che un nuovo taylorismo digitale finalizzato alla gestione automatizzata della prestazione di lavoro scade spesso, come nella gig economy, in un lavoro puramente servile. Di più: «è la maggioranza del lavoro digitale a vivere oggi una condizione servile».

Occorre allora ripensare alle categorie con cui, soprattutto la sinistra ha guardato alla tecnica e al capitalismo. E alla Rete, che è oggi la fabbrica capitalistica per eccellenza. Oltre i cui cancelli va dunque portata e insediata, finalmente, la democrazia. E il diritto. E i diritti.

Alberto Saibene, L’Italia di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, 2017, 165 pp., € 13

Benedetto Vecchi, Il capitalismo delle piattaforme, Manifestolibri, 2017, 90 pp. € 8

(L. Demichelis, www.alfabeta2.it, 28.06.2017)

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