Il modello tedesco di democrazia industriale.

La crisi attuale ha una triplice natura – finanziaria, ecologica e di iniqua distribuzione dei redditi – e secondo Enrico Grazzini è strettamente legata al modello anglosassone di organizzazione aziendale. Nel suo libro MANIFESTO PER LA DEMOCRAZIA ECONOMICA, Grazzini distingue infatti due modelli di “corporate governance”, due diversi modelli di governo delle grandi imprese: il modello anglosassone, basato su un unico consiglio di amministrazione nominato dalla proprietà dell’azienda (cioè dagli azionisti) e gestito di fatto dai manager; e il modello tedesco che invece è duale, perché prevede da un lato il consiglio di gestione, i cui manager si occupano dell’operatività ordinaria dell’azienda (dalla produzione alla vendita), e dall’altro un consiglio di sorveglianza che ha poteri circoscritti ma di grande importanza: nomina i membri del consiglio di gestione, approva il bilancio e decide sulle grandi scelte strategiche dell’azienda, le operazioni societarie (fusioni, scissioni, incorporazioni), gli investimenti e le delocalizzazioni.


La caratteristica peculiare del modello tedesco, che lo rende unico nel suo genere nel mondo, è che nelle imprese di dimensioni più grandi i membri del consiglio di sorveglianza sono per metà indicati dalla proprietà, cioè dagli azionisti, ma per metà sono eletti dai lavoratori dipendenti dell’azienda, che periodicamente scelgono, votando, i loro rappresentanti. Non si tratta, osserva l’autore, di una socializzazione dell’impresa, perché la proprietà ha il diritto di indicare il presidente del consiglio di gestione, il cui voto vale doppio: in caso di dissidi insanabili, perciò, la proprietà ha sempre la metà più uno dei voti in consiglio; ma si tratta di una eventualità che si verifica di rado, perché il modello societario è studiato per far convergere gli interessi delle due diverse parti e non per dividere.
Si tratta peraltro di un modello di organizzazione dell’impresa che non si è evoluto da sé, ma venne imposto ai tedeschi dalle potenze occidentali vincitrici alla fine del secondo conflitto mondiale, con l’obiettivo di limitare il potere degli imprenditori tedeschi, compromessi col nazismo; inizialmente introdotto per legge da Adenauer nei settori minerario e metallurgico, il modello fu poi esteso agli altri settori dell’economia tedesca, con variazioni a seconda delle dimensioni delle aziende, prima da Helmut Schmidt e poi da Gerhard Schroder. Di fatto, secondo l’autore, la Mitbestimmung o codeterminazione, che fu ideata dagli inglesi per limitare il potere economico tedesco, è stata al contrario proprio il principale fattore di successo di quell’economia e, oggi, “la Germania fornisce di gran lunga il maggiore esempio a livello mondiale di democrazia economica”.

Ma, si chiede Grazzini, perché la democrazia economica, attraverso forme di codeterminazione e cogestione della governance delle grandi imprese, è così importante per risolvere la triplice crisi in cui dibattiamo? La crisi, osserva l’autore, non è in verità solo economica, ecologica e di diseguale distribuzione della ricchezza; è anche una crisi della democrazia, perché il potere finanziario è riuscito a sostituirsi alla sovranità popolare dei cittadini nelle scelte strategiche, anche di natura politica. Una vicenda come l’Ilva, in cui la popolazione locale si è trovata di fronte alla scelta fra salute e lavoro, non avrebbe mai potuto accadere in Germania, ma neppure una vicenda come quella di Parmalat o le numerose delocalizzazioni in altri paesi di unità produttive nazionali: “il principale obiettivo dei consiglieri che rappresentano il lavoro è ovviamente di difendere i livelli occupazionali e le esigenze dei lavoratori; ma obiettivi non secondari sono anche quelli di prevenire gli abusi dei manager, la corruzione e la cattiva amministrazione, e di enfatizzare le strategie di sviluppo di lungo termine rispetto a quelle di breve periodo”.
I rappresentanti dei lavoratori in consiglio sono il “capitale paziente” che nel capitalismo tradizionale era rappresentato dalla proprietà familiare e talvolta dallo Stato nel suo ruolo di imprenditore pubblico: “la codecisione porta quindi alla continuità e all’espansione dell’attività manifatturiera nazionale, e questo è indubbiamente un formidabile punto di forza del sistema economico tedesco. Ogni chiusura aziendale, ogni acquisizione da parte degli stranieri viene considerata una sconfitta”. Con la codeterminazione, osserva Grazzini, “l’azienda è concepita come una entità sociale nella quale proprietari, dirigenti e lavoratori operano insieme per obiettivi comuni”; la conseguenza a livello macroeconomico dell’adozione di questo modello, scrive ancora l’autore, è che “i Paesi che hanno adottato le forme più avanzate di democrazia economica sono anche i primi ad uscire dalla crisi e, nonostante i problemi e le contraddizioni, sono anche quelli che appaiono più in grado di affrontare le drammatiche sfide della globalizzazione in maniera innovativa, equa e sostenibile”.

Il modello anglosassone di corporate governance, al contrario, si caratterizza oggi più che mai come un modello di “proprietari assenti”, perché la finanza speculativa e i grandi fondi di investimento non sono interessati alla vita reale dell’azienda e al suo sviluppo nel lungo periodo, ma solo al suo valore monetario attuale; la proprietà perciò diventa “liquida” perché liquido è il mercato azionario in cui quote anche ingenti di capitale possono passare di mano in frazioni di secondo. Con quel modello viviamo il paradosso per cui il lavoro, che è il fattore principale di produzione della ricchezza economica, non ha alcun potere; di più, osserva Grazzini, “i lavoratori sono considerati come un costo, purtroppo necessario ma da comprimere per quanto possibile, e come meri strumenti per raggiungere il profitto”.
E in Europa? A parte l’esperienza di diversi paesi, analiticamente descritta dall’autore (come il modello svedese, caratterizzato da un welfare universalistico che ha permesso il forte incremento dell’occupazione, specialmente femminile), l’UE è condizionata dal modello anglosassone di organizzazione aziendale ed è dominata da una visione neoliberista che ha introdotto forme di “concorrenza regolamentare”, un pericoloso arbitraggio delle regole che incentiva le aziende a spostarsi da un paese all’altro, a seconda delle loro convenienze (l’ “effetto Delaware”. E l’Italia? Il dibattito sul tema della democrazia economica, a tutti i livelli (politico, accademico, sindacale), è completamente assente e lo è stato anche in passato con le uniche eccezioni, osserva Grazzini, della Cisl e dell’esperienza rilevante ma circoscritta di Adriano Olivetti.
Eppure la nostra Costituzione, con l’articolo 46, introduce già un fondamento giuridico per poter procedere in tal senso perché, scrive l’autore, “i nostri padri fondatori avevano la vista lunga e avevano già previsto la possibilità che i lavoratori partecipassero alla gestione delle aziende”.

Non vi può essere vera democrazia senza democrazia economica, ma anche l’economia trae giovamento dalla democrazia e il modello tedesco di organizzazione aziendale ne è l’esempio concreto: occorre quindi aprire un dibattito vero sull’argomento, anche in Italia, perché finalmente si possano trovare soluzioni condivise per tornare a crescere; come scrive acutamente Grazzini, “la storia non si fa con i ‘se’ e con i ‘ma’, ma i ‘se’ e i ‘ma’ sono invece utili in politica”. Bisogna allora far uscire la democrazia economica dal buco nero del silenzio e portarla al centro del dibattito politico, perché è nei momenti di crisi che le idee innovative sono necessarie e possono avere successo: la Germania non deve ricordarci solo le politiche di austerità, c’è pure la Mitbestimmung nell’esperienza economica tedesca, ed è anche da lì che occorre partire per aprire una nuova fase per l’economia e la democrazia nel nostro Paese.
Enrico Grazzini, MANIFESTO PER LA DEMOCRAZIA ECONOMICA, ed. Castelvecchi, Roma 2014

(G. Magnani, www.valori.it, 15.09.2014)

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