Partecipazione, capitolo importante delle riforme istituzionali.

Prof. Cassese, intanto: nel sommario delle riforme istituzionali necessarie al Paese, a suo giudizio può essere inserito anche il capitolo della partecipazione dei lavoratori?

Non solo può, ma deve. È dal 1948 che la legge più alta, la Costituzione, prevede la collaborazione dei lavoratori nella gestione delle imprese. Dopo, sulla partecipazione si è fatta tanta retorica, ma la costituzione vivente non è stata mai adeguata a quella che è entrata in vigore nel 1948.

Perché il tema ha storicamente faticato ad affermarsi nel dibattito politico italiano?

I motivi sono molti. La Confindustria, nel febbraio del 1947, pubblicò due volumi intitolati “i consigli di gestione”. A pagina 11 del primo volume Angelo Costa, presidente della Confindustria, ribadì due volte che l’atteggiamento della sua organizzazione era di “netta ragionata opposizione”. Poi, le relazioni sindacali sono state ordinate su un modello conflittuale. Gino Giugni ha sviluppato l’idea dell’autonomia collettiva come un ordinamento giuridico separato dallo Stato. L’impresa è stata ordinata secondo un criterio gerarchico. I sindacati si sono divisi. La politica si è in disinteressata all’ordinamento sindacale. Le tre grandi centrali sindacali hanno preferito l’accentramento al decentramento ed hanno rifiutato il riconoscimento statale e di darsi un ordinamento a base democratica. Vi è stata una generale crisi della rappresentanza di interessi che in precedenza si doveva affiancare alla rappresentanza politica, come dimostrato dalla debolezza dell’unico organismo che la realizza, il Cnel. La rappresentanza è stata perlopiù ordinata in forme procedimentali piuttosto che organiche. Si sono sviluppate altre forme di democrazia. Infine, i consigli di gestione sono caduti nel dimenticatoio insieme alle comunità di lavoratori e di utenti, all’affermazione del dovere di lavorare, all’idea di libertà democratica, all’idea che potesse realizzarsi un azionariato popolare dei grandi complessi produttivi del paese, e a tanti altri articoli della Costituzione a cui tutti presentano omaggi, ignorando che è una buona parte delle sue disposizioni è dimenticata. Aggiunga a tutto questo una certa timidezza dei costituenti, le resistenze di sindacati, partiti ed imprese agli interventi statali, la prevalenza di altre culture, come quella di origine statunitense, a cui l’idea di cogestione, o di collaborazione, o di partecipazione è stata estranea.

La Cisl sta raccogliendo le firme a sostegno della propria proposta di legge depositata in Cassazione sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, proposta che intende riconoscere ai lavoratori italiani un forte ruolo nelle scelte strategiche e nella organizzazione del lavoro. Come giudica questa iniziativa?

Positivamente, come tutte le proposte che mirano ad attuare norme costituzionali. Penso che un nuovo interesse per i consigli gestione nasca dai nuovi sistemi produttivi, da un più alto grado di istruzione dei lavoratori, dal decentramento della contrattazione, dalle iniziative parlamentari del 2009, del 2012 e del 2016 e principalmente dal diritto europeo, con le direttive del 1980, del 1995 e del 2001, che prevedono il diritto dei lavoratori all’informazione, alla partecipazione finanziaria e alla partecipazione alla governance e determinano uno statuto della società europea. Non ultimo, l’idea che la funzione sociale possa entrare nella gestione delle imprese come dimostrato dalle iniziative dell’Onu e dell’Unione Europea sulle Environment Social Governance (Esg). Infine mi sembra importante l’esempio della Mitbestimmung tedesca. C’è da chiedersi, considerato che l’Italia è un Paese manifatturiero come la Germania, se lo sviluppo economico italiano non avrebbe potuto essere maggiore qualora ci fosse sviluppata anche in Italia la partecipazione dei lavoratori alle imprese.

C’è un modello che di partecipazione ritiene più adatto alla realtà italiana?

Sono dell’opinione che bisognerebbe seguire il modello del progetto Giannini-Morandi, del mese del dicembre 1946. Le norme non dovrebbero essere “una camicia di forza”, per tener conto della realtà multiforme delle esperienze di partecipazione. I consigli di gestione dovrebbero andare “oltre la fabbrica” e ricordare che “non è per virtù di una legge che si dà vita agli istituti sociali”. Quel progetto, nato dopo ripetute e dirette consultazioni, voleva dare attuazione all’articolo 46 della Costituzione costituendo i consigli di gestione come una struttura a rete, diffusa sul territorio.

In materia di partecipazione, cosa chiede o suggerisce l’Europa al nostro Paese?

Quello che chiede l’Europa è abbastanza noto e l’ho ricordato prima. Mi sembra importante chiedersi quello che vuole la Costituzione, articolo 46. La Costituzione fa riferimento all’elevazione economica sociale del lavoro, ma anche alle esigenze della produzione e stabilisce che deve essere introdotto un diritto a collaborare alla gestione delle imprese. Lascia la porta aperta a consultazione, partecipazione collaborativa, partecipazione all’amministrazione, partecipazione alla direzione delle imprese, partecipazione agli utili. È noto che Luigi Einaudi fu contrario a quest’ultimo tipo di partecipazione, nel timore di accordi imprenditori – operai che taglieggiassero la collettività. Bisogna ricordare che i consigli di gestione, dopo le esperienze precedenti al fascismo, erano previsti anche nel 1944 dalla Repubblica di Salò. Il Comitato di liberazione nazionale dell’alta Italia, nel 1945, sopprimendo le socializzazioni, conservò i consigli di gestione, ma nel 1948 proprio mentre entravo in vigore la Costituzione, i consigli di gestione entrarono in un cono d’ombra con l’eccezione di poche esperienze come quella dell’Olivetti, della Riv e in parte quelle dell’Iri, dell’Eni e della Finmeccanica. Andò così perso uno dei motivi ispiratori della Resistenza, la quale aveva una triplice natura, di guerra allo straniero occupante, di sollevazione popolare contro il fascismo, ma anche di rivolta sociale dei lavoratori contro quelli che allora venivano definiti padroni, in particolare contro i monopoli e il latifondo. Non bisogna dimenticare che la prima riforma di attuazione della Costituzione fu proprio la riforma agraria del 1950.

Anche di recente il Presidente della Repubblica Mattarella ha denunciato le tendenze oligarchiche della nostra democrazia: il potere esecutivo ha espropriato la funzione legislativa del Parlamento. A suo giudizio la democrazia partecipativa può dunque essere considerata il tertium datur vincente tra i rischi di formalismo della democrazia rappresentativa e il rapporto diretto tra i leader e il popolo?

Non penso che si possa proporre obiettivi tanto ambiziosi. Per ora è importante aver rotto il ghiaccio, dopo tre quarti di secolo, nell’attuazione di una norma costituzionale. Sarà l’esperienza concreta che potrà dirci se una forma di democrazia come i consigli di gestione possa integrare la democrazie politica. E sarebbe anche il caso di riaprire il capitolo della rappresentanza degli interessi, sia per riconoscerne la nobiltà, sia per assicurarne la trasparenza.

(Conquiste del Lavoro)

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