Lascia Bonanni, arriva una donna. Per favore, non cambiate solo le facce.

(…) la Cisl, anche nella stagione di Bonanni, ha mostrato di avere molte idee innovative, frutto di una lunghissima elaborazione. I fatti hanno dato ragione a una parte fondamentale di quel bagaglio, dalla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa alla contrattazione decentrata, per dire delle due ricette più importanti.

(…) Il cambio al vertice di un sindacato importante come la Cisl apre dunque la possibilità di imboccare una strada nuova. Quella dell’apertura ai problemi posti dalla depressione economica e dalla dilagante disoccupazione. Della comprensione delle necessità inedite di nuove generazioni che tentano di affacciarsi nel mondo del lavoro con un nuovo portato di cultura e di voglia di fare.
Forse anche la strada di un graduale ripensamento su un modello fondato su tre sindacati figlio di una tripartizione partitica della Prima repubblica, mentre stiamo entrando nella Terza, e di una idea basata sul collateralismo fra forze politiche e organizzazioni sindacali.

(M. Lavia, europaquotidiano.it, 24.09.2014)

La svolta di Landini: dal fianco dei deboli al salotto di Renzi.

(…) Caro Landini non crede che se questo governo avesse affrontato “i veri problemi” forse non ci ritroveremmo così ?

(…) Mi perdoni se glielo dico con la mia solita franchezza, ma il “cambiamento” mi sembra che lo incarni più lei di Renzi, però nel senso di mutazione genetica: da sincero paladino dei più deboli e riferimento per la sinistra, che non aveva paura di sfidare neanche il feroce Marchionne (…), lei oggi pare pensare più che altro a smarcarsi dalla Camusso, alle beghe con la Cgil, ad accreditarsi nel salotto del potere.

(L. Costamagna, il Fatto Quotidiano, 02.09.2014)

Storchi:” Regole sul lavoro anacronistiche, bene il governo se le rivoluzionerà.”

Il presidente di Federmeccanica: “L’articolo 18 non è più ammesso dalla realtà globale delle aziende.”

(…) E quali sono le colpe del sindacato?
“Non si tratta di accusarsi reciprocamente. Credo che sia finita l’epoca della contrapposizione. Bisogna andare verso una maggiore partecipazione e coinvolgimento dei lavoratori all’interno dell’azienda. Se c’è un modello da seguire, questo è quello della Germania”.

(R. Mania, www.repubblica.it, 17.09.2014)

Il modello tedesco di democrazia industriale.

La crisi attuale ha una triplice natura – finanziaria, ecologica e di iniqua distribuzione dei redditi – e secondo Enrico Grazzini è strettamente legata al modello anglosassone di organizzazione aziendale. Nel suo libro MANIFESTO PER LA DEMOCRAZIA ECONOMICA, Grazzini distingue infatti due modelli di “corporate governance”, due diversi modelli di governo delle grandi imprese: il modello anglosassone, basato su un unico consiglio di amministrazione nominato dalla proprietà dell’azienda (cioè dagli azionisti) e gestito di fatto dai manager; e il modello tedesco che invece è duale, perché prevede da un lato il consiglio di gestione, i cui manager si occupano dell’operatività ordinaria dell’azienda (dalla produzione alla vendita), e dall’altro un consiglio di sorveglianza che ha poteri circoscritti ma di grande importanza: nomina i membri del consiglio di gestione, approva il bilancio e decide sulle grandi scelte strategiche dell’azienda, le operazioni societarie (fusioni, scissioni, incorporazioni), gli investimenti e le delocalizzazioni.

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“Col modello partecipativo imprese più competitive.”

Furlan (Cisl): “Il sistema tedesco aumenta il senso di responsabilità a tutti i livelli.”

(…) Quel che accade in Germania ha certamente aspetti molto positivi. Primo tra tutti è la partecipazione dei lavoratori in azienda e la loro presenza nei comitati di vigilanza e controllo. E’ l’elemento che consente di rendere competitive le aziende, introducendo un forte senso di responsabilità da parte di tutti verso il futuro dell’azienda.

(G. Cazzaniga, Libero, 12.09.2014)

La vecchia concertazione è finita.

La cogestione non si può più fare ma i sindacati si debbono ascoltare.

“Quella che ho praticato io”, precisa Cesare Damiano del PD. Ma i sindacati vanno ascoltati.

E’ il governo che decide. Non può farlo però con dei tweet.

(…) Renzi così facendo rischia di unificare le organizzazioni sindacali in un atteggiamento di conflitto verso il governo.

(…) Il modello tedesco è ad alto tasso di concertazione, i sindacati sono coinvolti, e questo non vuol dire che il governo poi non decida.

(A. Ricciardi, Italia Oggi, 05.09.2014)

Gli interventi sporadici non bastano, ci vuole un patto per il lavoro e lo sviluppo.

(…) Al proposito si evoca da più parti il modello tedesco, il cui caposaldo è, al di là di quel che dicono gli ultra liberisti: una effettiva “democrazia economica” che attraverso i comitati di gestione (la Mitbestimmung) e la contrattazione decentrata, coinvolge il sindacato e i lavoratori nel governo delle imprese. In effetti quella del decentramento contrattuale purtroppo è in Italia una questione che non riesce a sbloccarsi anche per le resistenze delle organizzazioni sindacali.

(…) Questo ha rimodellato il ruolo del sindacato e dello stato nella creazione delle tutele e delle opportunità occupazionali. Si tratta di un modello profondamente alternativo al nostro attuale (che però subdolamente tollera povertà e precarietà selvagge) ma che vale la pena di prendere in considerazione se volgiamo incidere nella carne della enorme “questione sociale” che abbiamo di fronte, che ha per protagonisti i nostri figli.

(E. Rossi, www.huffingtonpost.it, 04.09.2014)

Co-determinazione, la vera forza del modello tedesco.

Renzi invoca il modello indu­striale tede­sco per ten­tare di risol­vere il pro­blema del lavoro e della disoc­cu­pa­zione. Però non dice che quel sistema indu­striale si fonda soprat­tutto sulla co-determinazione (Mit­be­stim­mung), che in ita­liano spesso si tra­duce male con coge­stione). In Ger­ma­nia i rap­pre­sen­tanti dei lavo­ra­tori sie­dono nel cda delle grandi e medie aziende con pari diritti degli azio­ni­sti: infatti per legge tutti i lavo­ra­tori, iscritti e non iscritti al sin­da­cato, eleg­gono non solo il con­si­glio sin­da­cale di fab­brica ma anche i loro rap­pre­sen­tanti nei con­si­gli diret­tivi delle imprese.

(…) I lavo­ra­tori tede­schi non hanno una par­te­ci­pa­zione finan­zia­ria nel capi­tale delle aziende (come invece vor­rebbe la Cisl in Ita­lia) e for­tu­na­ta­mente non sono legati agli utili del capi­tale ma hanno un potere reale sulle imprese. È que­sto il vero segreto della potenza mani­fat­tu­riera tede­sca: i lavo­ra­tori code­ci­dono del destino delle «loro» aziende e natu­ral­mente sono inte­res­sati a svi­lup­parle e a innovare.

(E. Grazzini, ilmanifesto.info, 03.09.2014)