«Meno conflitto, più collaborazione. Bene la proposta di legge sulla partecipazione al lavoro»

Più società e meno Stato, più collaborazione in azienda e meno centralizzazione contrattuale. Partecipazione ove ce ne siano le condizioni. Senza imporre nulla dall’alto, ma liberando la vitalità dell’impresa e del lavoro. È l’auspicio con cui Maurizio Sacconi guarda all’avvio del dibattito in aula sulla proposta di legge sulla partecipazione al lavoro.

Una proposta presentata lo scorso dicembre alla Camera dai capigruppo di maggioranza Tommaso Foti (Fdi), Paolo Barelli (Fi) e Maurizio Lupi (Noi con l’Italia) e firmata anche da Lorenzo Malagola (Fdi), che ha preso le mosse da quella di iniziativa popolare per cui aveva raccolto le firme la Cisl.

Il progetto intende aprire le porte a una governance d’impresa partecipata anche dai lavoratori su base contrattuale e quindi volontaria delle parti, ipotizzando varie forme di partecipazione, da quella consultiva a quella gestionale incluso il possesso di azioni o la distribuzione di una parte degli utili. Un progetto analogo a quello a cui Sacconi aveva lavorato, da ministro, producendo un codice delle regole vigenti da leggi e contratti, e poi, da presidente della commissione Lavoro, proponendo una sintesi delle proposte presentate. E che resta più che mai attuale se veramente si vuole riconoscere la possibilità per i lavoratori, peraltro costituzionalmente promossa (art. 46), di «collaborare alla gestione delle aziende» per «l’elevazione economica e sociale del lavoro».

Perché è importante parlare oggi di partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese?

La riflessione sulle modalità di partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese è un tema che è sempre appartenuto alla cultura politica dei cattolici e non può dunque che appartenere anche a un movimento sindacale di ispirazione cristiana come è la Cisl. Ma questo tema deve, a mio avviso, interessare tutti coloro che credono che la forma fisiologica dei rapporti di lavoro non debba essere il conflitto, bensì la collaborazione tra capitale e lavoro, tra lavoratori, management e proprietà aziendale.

Il segretario generale della Cisl ha sottolineato come sulla proposta di legge ispirata al progetto cislino ci sia un «positivo consenso bipartisan, con espressioni di adesione anche nelle fila dei partiti riformisti dell’opposizione». È così?

Me lo auguro, anche se non posso non dimenticare un paradosso, almeno nel mio vissuto: durante la legislatura che si è conclusa nel 2018 [quella dei governi Letta-Renzi-Gentiloni in cui Sacconi era presidente della commissione Lavoro al Senato, ndr], sebbene le forze politiche sembravano pronte, già allora, a convergere su di un testo condiviso anche dal senatore Pietro Ichino, il Pd “ufficiale” di fatto bloccò l’iter del provvedimento. E ciò che fu ancora più paradossale è che lo bloccò su iniziativa della allora Confindustria…

Cosa insegna quell’esperienza politica?

Resiste, anche nella rappresentanza d’impresa, una vecchia diffidenza verso la partecipazione che, diciamolo pure, può anche essere giustificata. Nell’esperienza delle relazioni collettive di lavoro in Italia, è prevalso, infatti, soprattutto a partire dagli anni Settanta, un approccio conflittuale. Specie nelle aziende in cui le relazioni di lavoro sono state egemonizzate dalla sinistra sindacale. E introdurre elementi partecipativi in un contesto conflittuale sarebbe ancora una follia, perché tali strumenti possono diventare un ulteriore modo per alimentare il conflitto.

Insomma, la partecipazione dei lavoratori è un tema delicato.

Il tema vero è che, nel momento in cui la Cisl rilancia la partecipazione, sceglie di rilanciare anche la sua identità di sindacato cooperativo opposto alla Cgil. Cioè di un sindacato che immagina lavoratori cooperanti in quanto partecipanti. Perché inserisce l’ipotesi della partecipazione in un contesto di collaborazione. Non a caso, non si sta discutendo, come molti erroneamente potrebbero essere portati a credere, di una legge “alla tedesca”; ma stiamo discutendo di una legge di sostegno a libere esperienze partecipative. Quindi di una legge che può incentivare, promuovere, libere e volontarie iniziative concordate tra le parti in un’azienda. Non si introduce nemmeno un modello obbligatorio per le aziende maggiori.

Pur ispirandosi, la proposta di legge, ad alcune best practice, italiane ed europee.

Se sono state elencate una serie di buone pratiche di vario genere è proprio perché la partecipazione si può realizzare in tantissimi modi. Dalla forma, più elementare, della condivisione di semplici meccanismi di informazione, alla forma, più sofisticata, di un certo ruolo riconosciuto ai lavoratori nella gestione dell’impresa. Con in mezzo la possibilità di partecipazione agli utili, partecipazione azionaria e quindi profili anche di carattere finanziario. Oppure modalità paritetiche con cui affrontare specifici problemi come, per esempio, le dinamiche retributive dei lavoratori giustificate da produttività e professionalità. Ma questo deve avvenire sempre su base libera e volontaria perché sarebbe un controsenso introdurre forme partecipative in un’azienda nella quale non ve ne sono le condizioni dal punto di vista dello spirito collaborativo.

La bontà di una legge sulla partecipazione sta, dunque, nelle esperienze che può consentire laddove ce ne siano le condizioni?

Marco Biagi avrebbe evocato uno strumento che a lui piaceva molto, un concetto tipicamente anglosassone, che è quello di soft law: una legge che non prevede né obblighi né sanzioni. La legge, infatti, può avere funzioni promozionali e, nel diritto del lavoro, le cosiddette leggi di sostegno sono leggi rivolte proprio a sviluppare l’autonomia delle parti, la cosiddetta autonomia collettiva. C’è una cultura sussidiaria in questo approccio in cui lo Stato rispetta l’autonomia collettiva, rispetta la capacità di autoregolazione che le parti in una determinata azienda e in uno specifico territorio hanno. La riflessione sulla partecipazione ripropone infatti un ulteriore aspetto tipico delle relazioni di lavoro, che è quello della prossimità. Ed è importante, soprattutto in un paese a lungo viziato dalla convinzione che la contrattazione debba essere centralizzata, riproporre il tema della partecipazione. Tema che peraltro riguadagna nuova attualità nel momento in cui è finito il “fordismo”, il modello di produzione seriale di beni e servizi. In Italia ogni impresa è infatti sempre più originale rispetto all’altra ed ogni lavoratore è originale rispetto all’altro, riacquista sempre più il suo volto dopo il tempo delle prestazioni ripetitive.

Intanto, mentre il Parlamento ha votato la legge di bilancio, le preoccupazioni legate al contesto geopolitico internazionale continuano a sfidare l’economia italiana. La legge sulla partecipazione è destinata a rimanere una goccia nell’oceano delle relazioni industriali?

La crescita dell’economia e del lavoro non si fanno mai solo con la spesa pubblica. Anzi, il meno possibile con la spesa pubblica. Io credo che la crescita si faccia, si debba fare, mobilitando la società. Anche negli anni migliori dell’Italia è stato così. Negli anni della ricostruzione, negli anni del boom economico e negli anni Ottanta il paese non è mai cresciuto grazie alla spesa pubblica, ma grazie alla fiducia nel futuro che c’era nella società. E grazie anche a legislatori che credevano nella sussidiarietà, nel fatto che si potesse scatenare la vitalità sociale, scatenare e non sostituire la vitalità della società. Da questo punto di vista potremmo ricollegarci a una frase detta dalla premier Giorgia Meloni all’atto del suo insediamento in Parlamento, una frase di cui questo governo e tutti i suoi ministri dovrebbero sempre ricordarsi: «Lo Stato non deve disturbare chi ha voglia di fare». Anche la partecipazione si inserisce in questa idea.

Vede il rischio dello statalismo?

Il rischio dello statalismo è immanente in ogni società insicura. E in tempo di incertezze non mi sorprenderebbe che una classe politica possa pensare di rispondere alla domanda di sicurezza attraverso più Stato. Ma in realtà le persone possono trovare sicurezza solo in se stesse nella misura in cui sono incoraggiate a essere operose. Dunque, ogni volta che la politica è tentata di cercare più Stato, si ricordi sempre che abbiamo bisogno di meno Stato ma migliore Stato. Di uno Stato autorevole, certo, ma essenziale e che incoraggi sempre la vitalità della società.

(Tempi)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *